Su un piano differente condusse le proprie ricerche Ernesto Grassi. Formatosi in anni difficili – l’anno in cui si laurea coincide con quello della redazione del Manifesto degli Intellettuali del fascismo di Giovanni Gentile – studiò con Piero Martinetti, scegliendo poi di continuare i propri studi fuori dall’Italia (Russo 1996, p. 751Russo, L. (1996) Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, Palermo: Centro internazionale di studi di estetica.). Nel 1927 si recò in Provenza ove conobbe Maurice Blondel e, nel 1928, in Germania ove incontrò per la seconda volta Husserl, il quale vide in lui «un predestinato alla filosofia». Nello stesso anno a Friburgo seguì le lezioni di Heidegger: «il contatto con Heidegger – scriverà Grassi – con il suo pensiero, faceva maturare in me ciò che io stesso non mi aspettavo, e mi portava su posizioni profondamente diverse dalle sue. Io prendevo coscienza, anzitutto, della mia tradizione italiana: a ciò mi sollecitavano tanto la continua polemica anti-latina del filosofo, quanto le sue reiterate affermazioni di germanesimo» (Grassi 1989, p. 752Grassi, E. (1989) L’impatto con Heidegger, Archivio di Filosofia, LVII(1-3): 73-81.).

Il volume Heidegger and the Question of Renaissance Humanism raccoglie una serie di conferenze che Grassi tenne nel 1982 al Medieval and Renaissance Center del Barnard College di New York (Grassi 1983). Il punto di partenza da cui muove Grassi è che la ricerca sull’umanesimo “storico” ha un senso solo se assume un significato filosofico e un’importanza per la riflessione presente (Grassi 1983, p. 9). Il problema è quello del linguaggio: da Wittgenstein, a Frege, a Carnap, fino alla filosofia analitica si ha, secondo Grassi, un processo che indica la netta affermazione di un pensiero fondato sul primato di strutture linguistiche e argomentative logico-razionali.

All’esclusione di altre forme linguistiche, e quindi di altri modi del conoscere, si lega il rifiuto di ogni tipo di umanismo. Per Heidegger la storia della filosofia occidentale, scriveva Grassi, era la storia di un pensiero che procede per inferenze razionali ricercando una verità logica. La fine della filosofia di cui parla Heidegger è il luogo in cui questo procedere si realizza nella sua massima possibilità. Un pensiero diverso, e questo è il punto, è quello che si costruisce sui linguaggi della poesia e che Heidegger ritrova nei Presocratici, in Sofocle e in Hölderlin. Ma davvero, si chiedeva Grassi, la storia della filosofia in Occidente è caratterizzabile nei termini individuati da Heidegger? Proprio l’umanesimo storico, per Grassi, smentiva questa visione.

Tra il Trecento e il Quattrocento si era costruito in Italia un pensiero non solo estraneo alla linea dello sviluppo della metafisica tradizionale individuata da Heidegger, ma anche vicino a posizioni centrali espresse dalla filosofia del pensatore tedesco (Grassi 1983, p. 32). Secondo Grassi era possibile trovare in Dante la tesi che l’esperienza della parola poetica fosse alla base dell’essere storico dell’uomo; in Leonardo Bruni l’idea che la storicità del linguaggio segnasse quella dell’uomo; in Boccaccio e nel Salutati quella che il mondo storico degli uomini, con i suoi dei e le sue istituzioni, fosse scaturito dalla parola poetica.

Le traduzioni di Platone fatte dal Ficino segnavano uno spartiacque. Per Grassi, l’Accademia Fiorentina marcava il ritorno alla metafisica tradizionale e ai problemi della fondazione logica e razionale del sapere. Lo “spirito” dell’umanesimo sarebbe poi sopravvissuto, secondo Grassi, solo in autori isolati, come Juan Luis Vives e Baltasar Gracián, fino a trovare la propria massima espressione nel pensiero di Giambattista Vico.

L’esclusione dell’Accademia Fiorentina è legata al rapporto che Grassi pone tra l’umanesimo e la filosofia di Heidegger. Secondo Grassi, l’importanza che storici come Kristeller avevano attribuito agli sviluppi del platonismo e del neoplatonismo nella Firenze di fine Quattrocento nascondeva il problema più importante, quello dell’elaborazione umanistica di un pensiero che trova fondamento ed espressione nel linguaggio poetico.

Heidegger, accogliendo quelle «interpretazioni tradizionali» dell’umanesimo, non si sarebbe accorto di un’analogia profonda che legava il suo pensiero a quello dei primi umanisti: il riconoscimento della centralità della parola poetica (Grassi 1983, p. 31). Dal punto di vista teoretico rimaneva da chiarire l’origine del valore filosofico della poesia.

Secondo Grassi era necessario partire dalla discussione heideggeriana sulla differenza ontologica: la relazione logico-deduttiva, puramente formale, che la metafisica tradizionale pone tra il principio primo – l’Essere – e gli enti non ha alcun carattere di validità o di necessità. Per questo in Heidegger «il problema della verità dell’Essere» si era posto pensando ed esprimendo il riferimento all’essere non in termini razionali e deduttivi, ma poetici. In Giambattista Vico, secondo Grassi, si ritrovava lo stesso attacco al tentativo di dedurre razionalmente la spiegazione del reale da un principio primo, a favore della centralità della conoscenza poetica. La poesia – non la logica – può parlare dell’Essere, perché non si tratta di comprendere il fondamento, ma la sua assenza, l’Abground.

Si è detto che per Heidegger si trattava di pensare “contro l’umanismo” nella misura in cui l’umanesimo stesso non poneva «l’humanitas dell’uomo a un livello abbastanza elevato» (Heidegger 2002, p. 283). Ogni umanesimo, secondo Heidegger, presuppone una determinazione dell’essenza dell’uomo senza però porre il problema della verità dell’Essere. Secondo Grassi, invece, l’umanesimo pone precisamente la questione che interessava Heidegger, e cioè quella di pensare poeticamente la relazione tra l’uomo e il mondo, tra il Dasein e l’Essere.

In Giovanni Pontano Grassi trovava la tesi secondo cui il linguaggio poetico svelava il mondo all’uomo e le cose gli si rivelavano storicamente attraverso la poesia. Secondo Grassi un altro esempio del valore e della funzione fondativa della parola poetica nell’umanesimo lo si trovava in Albertino Mussato che considerava la poesia come altera philosophia e theologia mundi (Grassi 1983, p. 55 ss.). Dal valore attribuito al linguaggio poetico derivava un’idea di verità ben diversa da quella della metafisica tradizionale e non lontana dal concetto di ἀλήθεια in Heidegger: alla verità intesa come svelatezza e non come adaequatio rei et intellectus pensava Colluccio Salutati parlando del vero che si offre dietro il velamen della metafora poetica.

Il confronto di Grassi tra l’umanesimo “storico” e certi aspetti della filosofia heideggeriana apriva una prospettiva interessante per tentare di comprendere temi e problemi della filosofia italiana del Quattro e Cinquecento e alcune tesi andrebbero forse riprese a proposito di autori da lui poco considerati, come Pico o Poliziano. Ma, ad ogni modo, il Brief heideggeriano poneva anche altri problemi, soprattutto in Italia, e in particolare sul rapporto tra umanesimo e marxismo.

In Heidegger l’umanesimo del Quattrocento italiano si confondeva con il marxismo nella misura in cui entrambe le filosofie gli parevano dare per scontata una presupposta e particolare determinazione metafisica dell’“essenza universale dell’uomo”.

In Italia allo scritto di Heidegger contribuì a dare rilievo la pubblicazione del saggio Heidegger redivivus di Lukàcs, sulla rivista Studi Filosofici diretta da Antonio Banfi. Nel suo saggio del 1949 Lukàcs, esaminando la posizione di Heidegger e interrogandosi sul rapporto tra il Brief e Sein und Zeit, vi leggeva i fondamenti di una «teologia senza dio» che, nel tendere a «ciò che è più originario», smarriva l’uomo in «una atmosfera di generale indeterminatezza» (Lukàcs 1948, p. 1803Lukàcs, G. (1948) Heidegger Redivivus (parte prima), Studi Filosofici (ristampa a cura del Centro Antonio Banfi, Arnaldo Forni editore, 4 voll., vol. IV, 1948-1949).).

L’originario di Heidegger altro non era, per Lukàcs, che «una incognita morale e filosofica», separata dall’esperienza dell’agire umano da una barriera insuperabile. La questione diviene forse più chiara se si considera un altro articolo pubblicato nelle pagine della stessa rivista e intitolato Les tâches de la philosophie marxiste dans la nouvelle démocratie. Secondo Lukàcs nella prospettiva marxista, «dieu a disparu et n’a pas laissé de vide» (Lukàcs 1948, p. 27), mentre in filosofie come quelle di Nietzsche, nei personaggi di Dostoevskij, in Sartre e in Heidegger la morte di Dio lascia il mondo nella più totale insensatezza. Ecco perché – sosteneva Lukàcs – nonostante l’ateismo, queste filosofie continuano a cercare una soddisfazione “mistico-mitologica”, che sfocia in ultima analisi in un irrazionalismo che abbandona l’uomo nella più “prosaica disperazione” (Lukàcs 1948, p. 27).

La solitudine dell’uomo moderno, lasciato a se stesso e privato della possibilità di farsi critico e attore della storia, diventava in questa prospettiva il vero problema del moderno. La risposta a questa crisi fu per alcuni quella dell’affermazione del marxismo, come prodotto dello sviluppo di una razionalità critica capace di guidare l’uomo fuori dalle spire di questa inquietante modernità.

Come ebbe a sottolineare Norberto Bobbio, uno dei tratti peculiari degli sviluppi del marxismo italiano fu proprio il legame con il Rinascimento. «Mentre in altri paesi – scriveva Bobbio – si coniuga-va il marxismo ora con l’esistenzialismo, ora col neopositivismo, ora col pragmatismo, in Italia Della Volpe cercava in Marx, liberato da ogni contagio con la filosofia classica e postclassica tedesca, il continuatore non di Hegel ma di Galileo» (Mondolfo 1968, p. XLVI4Mondolfo, R. (1968) Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, Torino: Einaudi.). Non è ininfluente il fatto che questo passo sia tratto dall’introduzione a una raccolta di saggi di Mondolfo pubblicata nel 1968, col titolo Umanismo di Marx. In quest’opera, in un capitolo dedicato a L’antinomia della coscienza rivoluzionaria, Mondolfo sosteneva infatti la necessità di risalire «alle origini stesse dell’idea di progresso», quindi a Giordano Bruno perché «questa idea è nata (e non poteva non nascere) in quella età del Rinascimento che audacemente insorge, contro il soffocante peso dello spirito tradizionalista o del principio di autorità, a rivendicare il diritto del pensiero alla sua autonomia e libertà; e con ciò apre le porte ed imprime l’impulso all’età moderna». Di nuovo «un giudizio generale sul “mondo moderno”, la sua storia e il suo destino» (Vasoli 2002, p. 7), di nuovo un confronto tra diverse «concezioni dell’uomo e del suo destino» (Garin 1968, pp. 265-266).

Alle reazioni di Lukàcs al Brief di Heidegger Antonio Banfi scelse di far seguire il suo saggio sull’Uomo copernicano, in cui la domanda sul presente ritorna di nuovo al Rinascimento per scorgervi, questa volta, l’origine di «un caratteristico spirito di illuminismo umanistico» (Banfi 1949, p. 245Banfi, A. (1949) L’uomo copernicano, Studi Filosofici (ristampa a cura del Centro Antonio Banfi, Arnaldo Forni editore, 4 voll., vol. IV, 1948-1949).). È qui che l’indagine di Banfi indicava nel «postulato teoretico del materialismo storico e della concezione etica che ne sgorga» il «risultato del razionalismo critico, in cui lo sviluppo del sapere moderno si eleva a piena coscienza» (Banfi 1949, p. 34).

Una riflessione attenta sul problema dell’umanesimo aveva però accompagnato Banfi in anni ben più duri di quando già poteva giustamente unirsi a «coloro che nella lotta si sono riconosciuti come la giovinezza del mondo» (Banfi 1949, p. 35). Le Parole d’introduzione che aprono il primo numero di Studi filosofici sono il manifesto del lavoro intellettuale che Banfi si proponeva di svolgere con la rivista: «Se la filosofia è un fatto umano – scriveva Banfi – ed anzi tende ad essere il centro dell’esperienza umana, non può essere indifferente all’umana cultura, e per cultura s’intende ogni avvenimento storico che abbia un significato spirituale» (Banfi 1940, p. 16Banfi, A. (1940) Parole d’introduzione, Studi Filosofici (ristampa a cura del Centro Antonio Banfi, Arnaldo Forni editore, 4 voll., vol. I, 1940-1941).).

È dunque a partire dal ruolo anche politico che Banfi assegna alla filosofia che si può comprendere il senso della sua riflessione sui problemi legati al concetto di umanesimo. Per Banfi – facciamo riferimento all’introduzione del primo numero di Studi Filosofici – è solo a partire dal «riconoscimento dell’essenziale natura scientifica, e perciò razionale, del sapere filosofico» e dalla definizione del filosofo come di colui che possiede l’«amore e il coraggio della verità» che diventava possibile costruire un cammino «critico e dialettico» capace di traghettare l’Europa fuori dall’incubo di quegli anni (Banfi 1948, p. 1).

La conclusione del primo saggio della rivista dedicato alla Situazione della filosofia contemporanea meriterebbe d’essere commentata riga per riga: «Dal fondo di un romanticismo estremo» – scriveva Banfi – sorgeva finalmente «un nuovo aperto illuminismo umanistico» (Banfi 1948, p. 25). Ma solo una filosofia razionalmente critica e capace di sviluppare «l’elasticità sottile e vivace dei giudizi» avrebbe potuto finalmente creare «un’atmosfera di coscienza e di responsabilità personale, di comprensione umana, di ragionevolezza» (Banfi 1948, p. 25). Di fronte alla crisi della cultura e delle istituzioni europee solo un sapere filosofico capace «di attingere come a verità non a un’idea risolutrice di quella, ma al senso della sua problematica assoluta» avrebbe potuto finalmente ristabilire «la coscienza, la certezza, la fiducia nella vita, nelle sue forze costruttive», illuminandola «in un senso di pacato umano equilibrio» (Banfi 1948, p. 25).