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1.2. L’irriducibile umano

Resistere alla disumanizzazione presuppone la possibilità di collocare l’evoluzione umana alla confluenza dei due processi di ominizzazione e umanizzazione attraverso dei criteri che consentano di definire ciò che l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali, chiamava «l’irriducibile umano».
Se si considera il diritto un rivelatore di divieti che sarebbero il marchio di questo irriducibile umano, si deve partire, da un lato, dai divieti “inderogabili”, ovvero quelli propri del diritto internazionale dei diritti umani, che vieta agli Stati di praticare trattamenti inumani o degradanti, quali la tortura o la schiavitù; dall’altro, dai crimini “imprescrittibili”, ovvero quelli del diritto internazionale penale, che vieta alle persone fisiche – compresi i capi di Stato – di commettere i crimini contro l’umanità e gli altri crimini internazionali elencati nello statuto dei tribunali penali internazionali e della Corte penale internazionale (CPI). Oltre alla diversità dei diritti nazionali, questo nuovo diritto internazionale consacrerebbe quindi implicitamente due principi che ho avuto modo di mettere in evidenza durante il corso: la singolarità e l’uguale appartenenza alla comunità umana. Si tratta di due principi universali o in ogni caso universalizzabili, poiché derivano dalla nostra doppia evoluzione: ominizzazione e umanizzazione.
Veniamo dunque al primo principio: la singolarità. Proclamando l’uguale dignità di tutti gli esseri umani, l’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani vieta di trattare un essere umano come “incompiuto” o di depersonalizzarlo, di ridurlo alla sua appartenenza a un gruppo. Il principio di singolarità, che è un fatto biologico e allo stesso tempo storico-culturale, è il fulcro del crimine contro l’umanità: vengo ucciso non per quello che ho fatto, ma perché appartengo a un determinato gruppo, etnico, religioso o politico.
Il secondo principio, indissociabile dal primo, l’uguale appartenenza di ogni essere umano alla comunità umana, consiste contemporaneamente in un fatto biologico – apparteniamo a una sola specie – e culturale – la Dichiarazione universale dei diritti umani si rivolge nel suo preambolo alla «famiglia umana». Anche Darwin era consapevole di tale dualismo quando scriveva: «Man mano che l’uomo progredisce nello incivilimento […], la più semplice ragione insegnerà a ogni individuo che egli deve estendere i suoi istinti sociali e le sue simpatie a tutti i membri della medesima nazione […]» (Darwin 1881, p. 132; trad. it. p. 78)1Darwin, C. (1881) La Descendance de l’homme et la sélection sexuelle, trad. Edmond Barbier, Paris: C. Reinwald. Trad. it: L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto col sesso / di Carlo Darwin, prima traduzione italiana col consenso dell’Autore del professore Michele Lessona, Torino, Napoli: Unione tipografico-editrice, 1888.. E aggiungeva: «Giunto una volta a questo punto, non vi è più che un ostacolo artificiale a ciò che le sue simpatie non si estendano agli uomini di tutte le nazioni e di tutte le razze» (ibid.).
È proprio questa estensione prospettica delle simpatie – provare delle emozioni per gli altri, e poi dell’empatia (ovvero, come ci dice Alain Berthoz: «la simpatia è il provare delle emozioni per gli altri restando sé stessi. […]. L’empatia […] consiste nel provare emozioni per gli altri mettendosi al loro posto») (Berthoz 2010)2Berthoz, A. (2010) La manipulation mentale des points de vue, un des fondements de la tolérance. In: A. Berthoz et al., dir., La Pluralité interprétative, Paris: Collège de France, coll. “Conférences”, § 26-27. Testo disponibile a: https://books.openedition.org/cdf/1484 (accesso effettuato il 30 novembre 2020). – che esprime l’appartenenza a un’unica comunità umana, ed è proprio questa empatia che viene negata alla vittima di tortura o di crimini contro l’umanità.
I due principi non sono tuttavia sufficienti quando si considerano i divieti di selezione eugenetica o di clonazione: la vera ragione dell’incriminazione attiene in primo luogo al rischio di creare dei nuovi gruppi di popolazione, e quindi nuovi trattamenti discriminatori, ma anche – mi pare – alla messa in discussione del principio di non-determinazione.
Un terzo principio, che potremmo dunque chiamare “principio di non-determinazione”, evoca l’importanza eccezionale, da un punto di vista biologico, della variabilità epigenetica. È sicuramente, ci diceva Jean-Pierre Changeux, un «principio necessario per la sopravvivenza della specie», in quanto favorisce la creatività e l’adattabilità (Changeux 2010)3Changeux, J. (2010) La variation dans l’évolution du cerveau. In: A. Prochiantz, dir., Darwin: 200 ans, Paris: Collège de France/Odile Jacob.. Allo stesso tempo, la non-determinazione nutre il sentimento di libertà. Ora, è questo sentimento a costituire l’essere umano come tale nella sua dignità e che sottende il principio di responsabilità. Per questa ragione non si dovrebbe separare, come fa invece il codice penale francese, il crimine contro “l’umanità” dal crimine contro “la specie umana”.
Per resistere alla disumanizzazione, la fattispecie di “crimine contro l’umanità” dovrebbe vietare pertanto non solo la distruzione – genocidio, sparizione forzata, omicidio – ma anche la degradazione – schiavitù, apartheid, discriminazione, e, inoltre, l’umano incompiuto, l’umano depersonalizzato – e, infine, la predeterminazione dell’essere umano, che sia previamente etichettato come “pericoloso”, o che sia creato attraverso un mezzo tecnologico quali l’eugenetica o la clonazione.
Chiaramente, non si tratta di punire tutto. Il crimine contro l’umanità, il più emblematico, tende a restare eccezionale. Esso presuppone una violazione dei principi di singolarità, di uguale appartenenza o di non-determinazione, ponendo in essere atti di carattere «esteso o sistematico» – come previsto dallo Statuto della CPI. Esso deve essere quindi frutto di un’azione collettiva: non si tratta di un crimine che può essere commesso individualmente. L’atto individuale può essere rilevante dal punto di vista del diritto nazionale, non di quello internazionale. Uno Stato o un’organizzazione che intende commettere uno di questi atti può intervenire attraverso un gruppo politico, religioso o criminale, ma anche, ad esempio, un laboratorio farmaceutico. Ciò dimostra l’importanza del processo che permette di responsabilizzare tutti gli attori titolari di un potere globale che possono porre in essere pratiche di disumanizzazione.

L’emergere del crimine di ecocidio
Dalla disumanizzazione, si arriva alla denaturazione. Ai tempi dell’Antropocene, si prevede di punire, indipendentemente dalla protezione dell’umanità, le varie minacce contro l’equilibrio dell’ecosistema, che potrebbero portare a un vero e proprio collasso del nostro pianeta. Da un punto di vista filosofico, «[l]’ecocidio […] non è il crimine ultimo, ma il primo, il crimine trascendentale, quello che farebbe venir meno le condizioni stesse di abitabilità della Terra» (Bourg 2016, p. 9). Attiene al rispetto dell’«universalità concreta, quella delle condizioni stesse di vita sulla Terra, ovvero il rispetto dei limiti del pianeta» (ibid.). Si stanno esplorando varie strade: sviluppare le disposizioni già previste dallo Statuto della Corte penale internazionale, ma che sono limitate a danni gravi all’ambiente naturale commessi nel corso di conflitti armati, oppure prevedere una fattispecie indipendente di attentato alla sicurezza del pianeta, o di ecocidio. Simmetrico al genocidio, l’ecocidio potrebbe essere inserito sia nel diritto interno di ogni Stato che nel diritto internazionale. Esso annuncia una tripla trasformazione del diritto penale: una condanna universalizzata, ma graduata secondo dei criteri di gravità; una repressione internazionalizzata, ma differenziata attraverso dei criteri di diversità; una responsabilità anticipata, ma modulata attraverso dei criteri di tolleranza (Delmas-Marty 2015; si veda anche Fouchard et al. 2018, p. 13).