CAPITOLO 1

L’UOMO E IL CIELO

Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo
E il Sole infaticabile, e la tonda
Luna, e gli astri diversi onde sfavilla
Incoronata la celeste volta,
E le Pleiadi, e l’Iadi, e la stella
D’Orion tempestosa, e la grand’Orsa
Che pur Plaustro si noma. Intorno al Polo
Ella si gira ed Orion riguarda,
Dai lavacri del mar sola divisa.

(Omero, Iliade, XVIII Libro, vv. 671-679)

PAROLE CHIAVE
Miti | Divinità | Tempo

Da tempo immemorabile, uomini di diverse epoche, regioni e civiltà hanno rivolto lo sguardo verso il cielo, sperando di trovare in quel “mondo” apparentemente perfetto e incontaminato, che sembrava ruotare attorno alla Terra, la ragione e lo scopo della loro esistenza, eventuali presagi relativi al loro destino e una possibile dimora in cui poter riposare, degnamente, dopo la morte.
Terra e Cielo, un dualismo comune alla mitologia di molti popoli dell’antichità, che volevano comprendere le ragioni per cui gli uomini fossero stati costretti a vivere in un luogo così difficile e ostile, quale il nostro pianeta, e provassero una forte aspirazione a un ritorno o a un’ascesa verso il Cielo.

I Sumeri credevano che la Terra, Ki, e il Cielo, An, inizialmente uniti per formare un tutt’uno, fossero stati separati da Enlil, signore del vento e dello spirito, un dio che loro stessi avevano generato, mentre per gli Egizi la divinità separatrice di Geb, la Terra, e Nut, il Cielo, era stata il padre, Shu. Lievemente diversa è, invece, la visione degli antichi Greci, che vedevano il Cielo come un’emanazione della Terra, creato per avvolgerla e per accogliere le potenze divine, come si può evincere dalla Teogonia di Esiodo, un poema in cui l’autore, nato molto probabilmente ad Ascra, in Beozia, fra l’VIII e il VII secolo a.C., racconta la genealogia e la storia degli dei greci, partendo dal Caos primordiale fino a raggiungere il momento in cui Zeus riuscì a conquistare il trono dell’Olimpo.

L’importanza del ruolo giocato dal Cielo, attraverso i secoli, su chi avvertiva il forte limite di sentirsi vincolato a vivere sulla Terra, si può trovare tuttora celata nell’etimologia di due verbi, “considerare” e “desiderare”, il cui significato odierno non lascerebbe supporre alcuna origine comune. Nessuno, infatti, penserebbe che l’insieme ponderato di riflessioni da compiersi prima di prendere una decisione o di tentare di risolvere un problema, “considerando” accuratamente tutti i pro e i contro, possa avere a che fare con il bisogno disperato e nostalgico che si avverte forte e incontrollabile nel desiderare qualcuno o qualcosa, se non fosse per quel “siderare” che i due verbi condividono e dietro cui si nascondono proprio le stelle, essendo sidera la forma plurale di sidus, parola che in latino significa “stella”.
Il verbo “considerare” deriva, in effetti, da cum sidera, “con le stelle”, e la ragione di questa origine, che potrebbe apparire strana, dipende dal fatto che nell’antichità le decisioni importanti venivano prese in accordo con le posizioni degli astri nel cielo. “Desiderare” trae origine, invece, da de sidera, dove il de aveva una funzione sottrattiva ed esprimeva la situazione esattamente contraria, ovvero quella di un cielo che le nubi avevano privato delle stelle, impedendo così agli antichi aruspici di poter trarre, da esse, indicazioni e profezie. Gli indovini e i maghi del passato “desideravano” pertanto ardentemente il ritorno del cielo stellato e di questa loro necessità impellente, che si mescolava alla nostalgia e a un senso di profonda mancanza, rimane traccia evidente nel moto dell’animo che accompagna il nostro odierno desiderare, da secoli non più rivolto alle stelle, ma che ne ha mantenuta, pressoché invariata, l’antica intensità.

Non stupisce, del resto, che i nostri antenati avessero colto nel cielo un aspetto magico. È la stessa impressione che proviamo anche noi, uomini e donne del XXI secolo, quando, abbandonate le nostre città inondate di luce, che ci hanno privati del meraviglioso spettacolo naturale offerto dal cielo stellato, riusciamo a raggiungere un luogo incontaminato. Immergendoci in quel luccicare di astri, a cui sentiamo di appartenere e a cui vorremmo ritornare, proviamo una sensazione di pace, unita al mistero, che ci fa sentire la piccola parte di un qualcosa di molto più grande.

I nostri antichi progenitori avevano notti più buie e cieli molto più spettacolari, ma non era semplice per loro abbandonarsi alle emozioni: la notte, specialmente quando era particolarmente scura per l’assenza della Luna, li esponeva a ogni genere di insidia, da cui dovevano difendersi. Fortunatamente, a ogni notte seguiva il giorno, dominato dal Sole, e gli uomini ne ricevevano, oltre che la luce, il calore. Lo stesso valeva per gli animali e per i frutti della Terra che, privati del Sole, non avrebbero mai potuto germinare e maturare.
L’assenza del Sole avrebbe provocato una notte fredda e senza fine, la morte per tutti nel giro di poco tempo. Non è un caso, pertanto, che il Sole sia stato identificato con la divinità più importante in molte religioni e che i termini “Dio” e “giorno”, mostrino, nel latino Deus e dies, la stessa radice. Deus era infatti proprio la divinità del cielo diurno che, sconfiggendo la notte, con la sua luce, generava il dies, ovvero la parte illuminata del giorno. Nella nostra lingua, l’origine comune dei due termini si è persa, poiché la parola “giorno” è derivata dal termine tardo latino diurnum, originato, a sua volta, dall’aggettivo diurnus, che significava “giornaliero”.
Molti popoli del passato temevano che il Sole potesse, una volta tramontato, non sorgere più e, per scongiurare questo pericolo, compivano numerosi sacrifici, giungendo anche a immolare dei loro simili. Il primato di questa triste consuetudine spetta agli Aztechi, che erano spinti da una vera e propria ossessione: erano convinti che il Sole dovesse essere mosso, oltre che sorretto, da una divinità e, per agevolarla in questo difficile compito, le tributavano un’enorme quantità di sacrifici umani. Lo spargimento di tutto quel sangue innocente non aveva però sempre l’effetto sperato, in quanto, essendo gli dei degli Aztechi in lotta perenne fra loro, poteva accadere che il dio che reggeva il Sole fosse sconfitto da un altro dio, che ne avrebbe preso il ruolo. In tal caso, il Sole sarebbe morto e il dio che lo aveva sorretto avrebbe subìto l’umiliazione di precipitare sulla Terra. A ogni morte del Sole sarebbe corrisposta una diversa e nuova era sulla Terra e gli Aztechi erano convinti che se ne fossero già avvicendate cinque.

Talvolta, il Sole diventava nero e, in assenza di una comprensione scientifica del fenomeno (l’eclissi), l’accadimento, oltre a far temere che il Sole potesse scomparire per sempre, era considerato un segno premonitore di eventi nefasti. Esiste un solo caso, riportato da Erodoto di Alicarnasso, storico dell’antica Grecia vissuto nel V secolo a.C., in cui l’eclissi totale di Sole, oltre a non aver avuto alcun effetto negativo, avrebbe addirittura cambiato positivamente il corso degli eventi. Si tratta della battaglia di Halys (antico nome del fiume Kızılırmak dell’attuale Turchia), avvenuta il 28 maggio del 585 a.C. fra i Lidi e i Medi, che erano in guerra tra loro da diversi anni. Quando il giorno si fece improvvisamente notte, i combattenti, convinti che si trattasse di un segnale divino che li esortava a deporre le armi, firmarono un trattato di pace permanente.
In generale, però, l’eclissi totale di Sole incuteva paura e angoscia. Significativa, in questo senso, è la locuzione con cui i Romani indicavano tale fenomeno: deliquium solis, quasi a sottolineare il fatto che il Sole potesse liquefarsi, durante l’eclissi, condannando gli abitanti della Terra a un buio perenne.

Dall’altra parte del “mondo”, gli Ojibway, una tribù di nativi americani, le cui origini vengono datate intorno all’anno 100 d.C. e che tuttora popolano, in numero di circa 80.000, le riserve di alcuni stati dell’America del Nord e del Canada, credevano che l’eclissi fosse il segnale di esaurimento della “vita” del Sole e così, durante tale evento, lanciavano in cielo delle frecce colorate, con la speranza di riuscire a riaccendere la fiamma della stella.
Al Sole, signore del giorno, si contrappone la Luna, che nel pieno della sua forma è la signora della notte, capace di rischiarare le tenebre col suo candore spettrale. La Luna piena domina, infatti, l’intera notte, sorgendo al tramonto del Sole e tramontando all’alba, perché soltanto quando è opposta al Sole, ossia quando la Terra si trova fra la Luna e il Sole, quest’ultimo può illuminarla completamente.

Il Sole e la Luna piena mostrano nel cielo la stessa dimensione apparente. Si tratta di una curiosa coincidenza, dovuta al fatto che il Sole è circa 400 volte più grande della Luna, ma anche circa 400 volte più lontano. Questo, oltre a rendere possibile il verificarsi del fenomeno dell’eclissi totale di Sole, ha favorito lo stabilirsi di un dualismo tra il corpo celeste che domina il giorno e quello che gli fa una sorta di eco nella notte. Non è un caso, pertanto, che fin dall’antichità il Sole sia stato associato al principio maschile e la Luna a quello femminile. Molto probabilmente, tale credenza ha trovato sostegno anche nell’analogia temporale fra il periodo della Luna, ossia il numero di giorni (29 e mezzo circa) che intercorrono fra il ripetersi di una stessa fase, e il ciclo femminile.

Esiste, tuttavia, un’eccezione degna di nota riguardante i popoli germanici, che avevano associato al Sole una figura femminile, Sól, da cui è derivato, attraverso il latino, il nome che abbiamo attribuito alla nostra stella e alla Luna una figura maschile, Máni. Secondo la loro mitologia, Sól e Máni erano i figli di un gigante, Mundilfari, il cui nome, nella loro lingua, significava “Signore del tempo” e gli dei, invidiosi della bellezza dei due fratelli, li avevano rapiti e obbligati a guidare i carri del Sole e della Luna. Inoltre, per fare in modo che non potessero fermarsi mai, avevano posto un lupo all’inseguimento di ciascun carro.
La mutevolezza di forma della Luna, che si accompagna al suo apparire nelle diverse ore del giorno e della notte, ha suscitato la curiosità di molti popoli del passato. Nell’antica Grecia, ad esempio, la sua scomparsa per tre giorni interi, in corrispondenza del novilunio, veniva interpretata come simbolo di morte e resurrezione e associata a Ecate, divinità a tre teste di probabile origine indoeuropea, che era ritenuta la custode dei segreti e dei misteri dell’aldilà.
Alla Luna si deve anche la consuetudine di suddividere l’anno in mesi, un legame che rimane tuttora evidente nella radice comune di “Luna” e “mese” nelle lingue germaniche: Moon e month in inglese, Mond e Monat in tedesco, maan e mand in olandese e månen e månad in svedese, norvegese e danese, tutti termini che rimandano molto chiaramente al mito di Máni.
Così come il Sole pareva voler indicare all’uomo l’alternarsi dei periodi da dedicare alla veglia e al sonno, permettendogli di definire il giorno e la notte, la ciclicità delle fasi della Luna sembrava suggerirgli il modo più naturale di raggruppare tra loro i giorni, all’interno dei mesi. Questi ultimi iniziavano generalmente con la prima falce di Luna nuova, ossia il momento in cui la Luna tornava a mostrarsi in cielo prossima al Sole, appena dopo il tramonto. Poiché le fasi lunari si ripetono con un periodo di circa 29 giorni e mezzo e il mese deve contenere un numero intero di giorni, i calendari lunari, che furono i primi a essere realizzati, alternavano tipicamente un mese da 29 giorni a uno di 30.

Oltre a consentire all’uomo di contare i giorni, sulla base del susseguirsi di luce e buio, e a suggerirgli di raggruppare i giorni in mesi, seguendo il ciclo della Luna, il Cielo sembrava voler dare anche indicazioni utili su come riconoscere le stagioni che si avvicendavano sulla Terra. Ciò era possibile, in virtù del fatto che al movimento diurno del sole e notturno delle stelle attraverso il cielo, dovuto in realtà al moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse, si affiancavano, nel corso dell’anno, per effetto del moto di rivoluzione della Terra attorno al Sole, mutamenti nell’aspetto del cielo stellato e nel cammino apparente del Sole, quest’ultimo dovuto all’inclinazione dell’asse della Terra rispetto al piano della sua orbita.