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La sovrastima delle dimensioni della galassia risultava, invece, dal fatto che Shapley aveva sistematicamente sovrastimato tutte le distanze degli ammassi globulari, perché aveva commesso due errori: il primo era legato al fatto che non aveva tenuto in alcun conto l’assorbimento della luce, derivante dalla presenza della polvere negli spazi interstellari, che fa apparire progressivamente le stelle meno luminose e i diametri più piccoli (in quanto ne vengono sfumati i bordi) all’aumentare della distanza (producendo di conseguenza una sovrastima di quest’ultima); il secondo errore, che aveva avuto un effetto ancora più importante, dipendeva dall’assunzione che le variabili presenti negli ammassi globulari fossero dello stesso tipo di quelle che la Leavitt aveva identificato nella Piccola Nube, mentre invece così non era.

Diversi anni dopo, nel 1944, l’astronomo di origini tedesche Walter Baade (che dal 1931 avrebbe lavorato proprio all’Osservatorio di Mount Wilson) approfittando dell’oscuramento di tutte le luci della vicina città di Los Angeles, effettuato per il timore di attacchi aerei a opera dei giapponesi, sarebbe riuscito a identificare nella Galassia di Andromeda e nelle sue due galassie “satelliti”, M32 e NGC205 (corrispondente a M110, l’oggetto del catalogo di Messier, che catturò l’attenzione di Caroline Herschel), delle stelle caratterizzate da un colore molto diverso. A differenza di Andromeda, che era una galassia a spirale, le altre due erano prive di braccia e avevano una forma ellittica e le lastre “profonde” che Baade avrebbe ottenuto (con lo stesso riflettore utilizzato da Shapley e tempi di posa di quattro ore), avrebbero rivelato che, mentre in Andromeda le stelle che apparivano dominare, in numero, su tutte le altre, appartenevano ai tipi spettrali K e B, nelle galassie satelliti le stelle più numerose erano esclusivamente quelle di tipo K. I due tipi stellari dominanti in Andromeda mostravano, inoltre, una distribuzione spaziale diversa: le stelle B si trovavano nelle braccia a spirale, mentre le K nella regione a esse circostante.

L’analogia tra quanto avrebbe visto in Andromeda e quanto era già noto nella nostra galassia avrebbe indotto Baade a ipotizzare l’esistenza di due diverse popolazioni stellari nelle spirali: le stelle blu distribuite nel disco (la regione sottile in cui si trovano le braccia) e le stelle rosse invece nel bulge (il rigonfiamento centrale delle spirali) e nell’alone (la regione di forma sferica che circonda bulge e disco). Non conoscendo il motivo fisico di quanto aveva evidenziato, Baade avrebbe deciso di chiamare “popolazione I” quella del disco e “popolazione II” quella del bulge e dell’alone. Nel giro di una decina di anni si sarebbe compreso che la differenza tra le due popolazioni stellari rifletteva semplicemente una diversa età delle stelle che ne facevano parte in quanto le stelle della popolazione II si sarebbero rivelate essere più vecchie delle stelle della popolazione I e così la nomenclatura scelta da Baade, e tuttora utilizzata, sarebbe risultata, negli anni a venire, del tutto anti-intuitiva. All’epoca in cui Baade avrebbe effettuato le sue osservazioni, sarebbe stato chiarito da pochi anni il meccanismo che rendeva luminose le stelle. Nel 1939, il fisico tedesco Hans Albrecht Bethe, riprendendo un’intuizione dell’astrofisico inglese Arthur Eddington (noto ai più per aver mostrato, in occasione dell’eclissi totale di Sole del 29 maggio del 1919 la validità della teoria della relatività generale di Einstein), avrebbe individuato, nella reazione di fusione nucleare dell’idrogeno, la fonte di energia delle stelle, guadagnandosi in questo modo il premio Nobel per la Fisica nel 1967. Bethe avrebbe ipotizzato che, nelle regioni centrali delle stelle, i nuclei dell’idrogeno (costituiti da un unico protone) venissero trasformati in nuclei di elio (costituiti da due protoni e due neutroni) e che la differenza tra le masse (dei quattro protoni iniziali e del nucleo di elio) fosse liberata sotto forma di energia secondo la ben nota relazione E = mc2, che era stata formulata da Einstein nel 1905 nell’ambito della teoria della relatività ristretta. La fusione nucleare dell’idrogeno sarebbe stata possibile soltanto negli interni stellari, in cui le temperature dell’ordine di milioni di gradi consentono alle cariche dello stesso segno, quali sono i protoni, di superare la forza, che tende naturalmente ad allontanarle, e a farli collidere gli uni con gli altri, per poter formare, attraverso una serie di reazioni, il nucleo atomico dell’elio.

Sarebbero occorsi ancora diversi anni prima che, nel 1957, tre fisici inglesi, Margaret e Geoffrey Burbidge e Fred Hoyle, e un fisico statunitense, William Fowler, con un articolo lungo più di 100 pagine, mostrassero che al processo di fusione dell’idrogeno in elio sarebbero potuti seguire processi di fusione, molto più rapidi del precedente, che avrebbero portato alla produzione di tutti gli elementi della tavola periodica, compresi tra l’elio e il ferro.
Non tutte le stelle avrebbero potuto produrre il ferro, ma per quelle, le più massicce, che fossero riuscite a farlo, la morte sarebbe stata a dir poco spettacolare. La fusione nucleare del ferro è un processo che, invece di liberare energia, la assorbe e pertanto se nel nucleo di una stella, costituito da ferro, iniziano i processi di fusione per formare l’elemento successivo, la temperatura, invece di aumentare, cala e il nucleo, non più sostenuto da alcuna forma di energia che possa bilanciare l’effetto della gravità, inizia a contrarsi fino a raggiungere una densità talmente grande da non essere più sostenibile, che lo porta a esplodere, producendo il fenomeno di Supernova. In questo modo, vengono rilasciati nello spazio, oltre agli elementi prodotti dalla stella attraverso la fusione nucleare, anche quelli che si generano in questa ultima fase esplosiva attraverso la cattura di neutroni, che sfuggono dalla stessa stella, con una serie complicata di processi che riesce a dar ragione della produzione di tutti gli elementi della tavola periodica.

Gli autori dello storico lavoro del 1957 avrebbero mostrato, inoltre, che il tempo di vita di ogni stella sarebbe stato speso per il 90% nel fenomeno di fusione da idrogeno a elio e che, terminato tale combustibile nucleare, la stella avrebbe avuto un destino che sarebbe dipeso dalla sua massa iniziale. Quest’ultima avrebbe giocato un ruolo determinante anche nella fusione dell’idrogeno, che sarebbe stata tanto più efficiente – e quindi più rapida – quanto più la stella fosse stata massiccia. Per questo motivo, le stelle blu, che sono più massicce delle rosse, avrebbero abbandonato più rapidamente di queste ultime la regione del diagramma di Hertzsprung-Russell, occupata dalle stelle, durante questa prima lunga fase della loro vita (che, in termini tecnici, è detta la “sequenza principale”) e, a differenza delle stelle rosse, non sarebbero state più visibili. Soltanto eventi di formazione stellare, accaduti successivamente al primo, avrebbero potuto ripopolare l’intera regione, riempiendo quindi anche il vuoto lasciato dalle stelle blu.

La mancanza di stelle blu nei satelliti di Andromeda, rivelata da Baade, stava pertanto a indicare che in quelle due galassie la formazione stellare non era più in atto. La loro presenza nelle braccia di Andromeda e della nostra galassia mostrava, invece, che in tali regioni continuavano a formarsi nuove stelle e che quelle di massa maggiore andavano a riempire la lacuna, lasciata dalle stelle della generazione precedente. Le stelle rosse, della popolazione II, erano quindi più vecchie delle stelle blu, della popolazione I.

Le Cefeidi, identificate da Henrietta Leavitt nella Piccola Nube, che è una galassia in cui la formazione stellare è ancora attiva, erano stelle giovani, appartenenti alla popolazione I, mentre, al contrario, le Cefeidi, identificate da Shapley negli ammassi globulari della nostra galassia, erano stelle vecchie appartenenti alla popolazione II. Sia le une che le altre mostravano una relazione tra il periodo e la luminosità, prodotta dalla pulsazione dei loro strati più superficiali, dovuta a un meccanismo abbastanza complesso (che sarebbe stato illustrato nel 1953 da Zhevakin), ma le relazioni erano diverse. In particolare, a un medesimo periodo della variazione sarebbe corrisposto un valore della luminosità massima delle Cefeidi della popolazione II, inferiore a quello mostrato dalle Cefeidi della popolazione I. Adottando per le Cefeidi degli ammassi globulari la relazione che la Leavitt aveva derivato per le Cefeidi della Piccola Nube, Shapley ne aveva quindi sovrastimato la luminosità intrinseca e, di conseguenza, anche le distanze di tutti gli ammassi. Il risultato di cui Shapley era stato così orgoglioso, e su cui aveva ottenuto un quasi unanime consenso dei colleghi, si sarebbe rivelato, pertanto, errato nel corso degli anni successivi. Quello studio, tuttavia, gli aveva permesso di cogliere un’evidenza molto importante, ovvero quella relativa alla distribuzione nel cielo degli ammassi globulari, che lo aveva indotto a postulare che il Sole non fosse al centro della nostra galassia.

La distribuzione degli ammassi globulari era parsa a Shapley, fin da subito, non simmetrica attorno al Sole e, per trovare ulteriore sostegno alla sua ipotesi, aveva deciso di acquisire i loro spettri. Da essi, misurando lo spostamento delle righe di assorbimento (dovuto all’effetto Doppler-Fizeau), aveva derivato le velocità, riuscendo a stabilire, con un buon margine di sicurezza, che gli ammassi erano in orbita attorno a un punto, il centro della galassia, che non coincideva col Sole. Il privilegio del centro, che era stato della Terra fino a Copernico, con Shapley veniva tolto anche al Sole.
La maggioranza degli astronomi però si era mostrata molto scettica, in relazione a questo risultato, e tra loro era naturalmente anche lo stesso Curtis, che era a favore di una galassia molto più piccola di quella di Shapley: 10 kpc di diametro del disco, con il Sole che ne manteneva saldamente la posizione centrale.