4. Dio, la ragione e l’intelletto

Nella sua monografia su Pico del 1937, Eugenio Garin iniziava così l’analisi del problema della conoscenza di Dio nell’opera pichiana: «se quello spirito nuovo per cui il problema di Dio è unicamente problema della conoscenza di Dio, del rapporto fra l’uomo e Dio; se quello spirito che parve prerogativa di Cusano anima anche quell’itinerarium mentis ad Deum che è il pensiero di Pico, non è perciò giustificata una derivazione di questo da quello, né legittima una riduzione di questo a quello» (Garin 1937, p. 1191Garin, E. (1937) Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Firenze: Le Monnier.). Per una corretta analisi dei rapporti tra i due pensatori occorrerebbe – ribadiva Garin – la presenza di fonti e tradizioni comuni, oltre alla specificità d’intenti e di pensiero. Non era solo la mancanza di documenti che comprovassero una conoscenza diretta tra Pico e Cusano o almeno mediata da riferimenti testuali e interpretativi comuni. Alla fine degli anni Trenta del Novecento, Garin pensava ancora, sulla linea storiografica che era stata di Giovanni Gentile e che sarebbe stata di Nicola Badaloni, a un umanesimo filosofico italiano, impermeabile a sollecitazioni culturali nordiche e mitteleuropee, a dispetto di solo apparenti assonanze. Una filosofia autoctona che avrebbe raggiunto l’opera di Giordano Bruno, egualmente refrattario a recepire, almeno nella sostanza, fonti diverse da quelle ficiniane e italiane. Ed era soprattutto Cusano, non solo nelle interpretazioni della «nova filosofia» bruniana, ma anche in quelle dello strumentario pichiano, il fantasma più inquietante. Nella monografia del 1937, Garin insisteva sull’originalità della riflessione di Pico evidenziando come «questo urgere di problemi nuovi, questa originalità di atteggiamenti e di impulsi, l’ardito erompere da schemi fatti, che pur determina disorientamenti e disordini, danno un aspetto peculiare al pensiero di Pico, anche là dove più resta vicino per identità d’ispirazione al pensatore tedesco: nel problema di Dio» (Garin 1937, p. 120).

A distanza di anni, com’è noto, Garin avrebbe ridimensionato notevolmente la propria posizione. Nel frattempo sono stati acquisiti documenti che effettivamente mancavano, nei primi decenni del Novecento, a conferma di oggettivi punti d’incontro tra il filosofo di Kues e l’ambito dell’umanesimo italiano prossimo a Pico, e di una filosofia, quella di Cusano, meno estranea ai centri culturali della penisola, rafforzata dalla conoscenza di umanisti come Ambrogio Traversari, Leon Battista Alberti, Giorgio Valla, Giuliano Cesarini, Paolo Dal Pozzo Toscanelli.

Di recente, Rafael Ebgi, nel saggio introduttivo al De Ente et Uno, ha insistito sulla sintonia del trattato con il De docta ignorantia. Ma è stato soprattutto Kurt Flash a dedicare un’attenzione nuova al rapporto tra la filosofia di Cusano e quella di Pico, puntando sugli scritti successivi la Dotta ignoranza per mostrare come il motivo più complesso del pensiero cusaniano, la coincidenza degli opposti, abbia trovato in Italia e segnatamente in Pico, un apprezzamento di molto anteriore rispetto a quello poi manifestato da Bruno.

In un saggio del 1980, ripreso in parte entro la monografia Nikolaus von Kues del 1998, Kurt Flash ha mostrato come alcune delle Conclusiones paradoxae (dalla dodicesima alla ventiduesima), preparate in vista del congresso del 1486, rivelino la familiarità di Pico con il pensiero di Cusano. Una familiarità che Flash giustifica sulla base della conoscenza diretta di opere successive il De coniecturis e, in particolare, il De beryllo, il De complementis theologicis e il De complementis mathematicis (Flash 2002, pp. 175-1922Flash, K. (2002) Cusano e gli intellettuali italiani del Quattrocento. In: C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, Milano: Bruno Mondadori.).

Ma è nel De coniecturis che il filosofo mirandolano trova motivi essenziali, benché non esclusivi, in vista della nozione di concordia che intende proporre. È in questa opera, molto più che nella precedente, che è possibile rintracciare un concetto di coincidenza che, come sarà nel De Ente et Uno e, in generale, nella concezione pichiana, non annulla le differenze, ma su quelle si fonda. Ed è sempre nello scritto del 1442 che l’analisi delle relazioni tra ragione e intelletto apre a quell’articolazione del discorso filosofico su piani diversi che guiderà l’ermeneutica del De Ente et Uno e garantirà la coerenza di definizioni e nozioni diverse di un medesimo soggetto, assunte tutte come particolari e non assolute.

Ciò che al Cittadini appariva assurdo – che Dio potesse essere definito uno modo Ente e, aliquo modo diverso dall’Ente – all’autore del De coniecturis sarebbe apparso del tutto accettabile, sebbene – anzi, proprio perché – «paradossale». La cosa più assurda per Cusano sarebbe esattamente ciò che Pico contesta al Cittadini: affermare, dell’unità infinita, qualcosa a preferenza di altro. Anche per Pico, come per Cusano, l’intelletto approssima la presenza divina «quanto più la ragione abbandona la pretesa di essere all’altezza di conoscere Dio» (Pico 2010, p. 137). La ragione – aveva spiegato Cusano nel capitolo VIII del libro delle Congetture – coglie, o sarebbe più corretto dire, costruisce, le opposizioni, onde garantire una conoscenza comparativa e commisurativa; i suoi giudizi sono quindi come i numeri, dei quali uno è pari, l’altro è dispari: «non giudica mai compatibili gli opposti perché giudicare, per la ragione, è procedere con il numero» (Cusano 1972, p. 2203Cusano, N. (1972) Opere Filosofiche. Edizione a cura di G. Federici Vescovini. Torino: Utet.). Per questo non è in grado di cogliere Dio, che è «anteriore a ogni alterità, diversità, opposizione, ineguaglianza, divisione, e a tutto ciò che va insieme alla molteplicità» (Cusano 1972, p. 213).

Il modo in cui Cusano, a partire dal De coniecturis, pone la questione dei rapporti tra intellectus, ratio e conoscenza di Dio può aiutare a chiarire il rapporto dialettico che Pico pone tra discorso filosofico e teologia mistica nel De Ente et Uno.

Ragione e intelletto conducono a livelli diversi il discorso su Dio. La ragione è capace di distinguere e la distinzione consiste nell’esclusione. Più precisamente, l’attività razionale, che si esplica attraverso la distinzione, l’inclusione e l’esclusione, ha il proprio fondamento sulla negazione. I sensi non conoscono, perché non distinguono e non distinguono in quanto non possono negare. La ragione è invece in grado di farlo perché si rivolge all’alterità ed esclude l’infinito dalla propria considerazione. Benché strumento efficace, per Cusano, per dare ordine alle sensazioni e per muovere l’intelletto nell’ambito del distinto e del limitato, è del tutto inadatta a dar conto dell’infinito. Più di quanto non sia nel De docta ignorantia, la via razionale non solo non è rinnegata, ma è riconosciuta come «fabbricatrice» di un sapere matematico al quale Cusano riconduce il livello più alto del sapere congetturale in ordine al finito.

L’errore non consiste nell’affidarsi alla ragione per costruire un sa-pere umano, ma nell’applicare la via razionale a un’indagine che esula dall’ordine del finito. Oltre il finito, si rivela procedimento del tutto inadatto non solo ad affermare alcunché intorno a Dio, ma anche ad afferrare la natura stessa della conoscenza umana di fronte alla ricerca di una verità che sfugge all’infinito. Di qui la polemica del De coniecturis rispetto allo strumento dialettico-scolastico della quaestio, vale a dire della dimostrazione, per mezzo della ragione, di problemi e casi metafisici e teologici. Ineptitudo di una traditio, quella scolastica, la quale, posta una domanda e individuate le risposte tra loro opposte, propone come solutio o l’una o l’altra e rivela la stessa stoltezza che Pico imputa al Cittadini e a quei filosofi e interpreti che decidono sic o non in ordine a problemi che esulano dall’ambito del distinto.

Una volta criticata in questi termini la teologia razionale, mortificazione inevitabile dell’infinità divina, è evidente come per Cusano e per Pico la via più adatta per avvicinare l’unità assoluta di Dio, che a tutto è superiore e tutto precede, compresi gli opposti, sia quella mistica. Ma, nell’uno e nell’altro filosofo, c’è una consapevolezza in più rispetto alla mistica medievale e alla tradizione dionisiana. Il carattere ipotetico di ogni conoscenza, inevitabilmente parziale rispetto all’inattingibilità di una verità assoluta. Questo è, per Pico, il principio stesso di una concordia che, anziché negare le differenze, le salvaguarda e le ammette in sé. È lo stesso fondamento del principio cusaniano della tolleranza tra religioni monoteiste: tutte ammissibili sul piano dottrinale, non perché uguali, ma perché ciascuna definisce, entro i limiti della propria, peculiare, dottrina, una realtà infinita.

Ma la tolleranza di Cusano come la concordia di Pico, lungi dal proporre una deriva scettica – non c’è una vera religione, non c’è un filosofare vero – eleva in direzione dell’infinito l’attività di una mente, quella umana, in sé finita. È ancora la congettura di Cusano a offrire, anche semplicemente per analogia, una chiave interpretativa della concordia, oltre quelle offerte dallo Pseudo-Dionigi, da Pletone, dagli umanisti bizantini o dalla filosofia perenne ficiniana.

La conoscenza consiste nell’avanzare ipotesi che si avvicinino il più possibile alla realtà indagata; questo formulare ipotesi è il congetturare, dal latino conicere, il verbo che indica il lancio di un proietto verso un bersaglio. Se l’infinito è l’oggetto della ricerca umana, inevitabilmente congetturale, le congetture, per quanto accurate e numerose, non saranno mai adeguate a raggiungerlo. Per quanto la mente umana si lanci in congetture sempre nuove, non raggiungerà mai il bersaglio e potrà al massimo avvicinarlo progressivamente senza però centrarlo. Il rapporto tra la mente finita che si lancia nella caccia alla conoscenza e la sua preda infinita, resta quello che si stabilisce tra il poligono e il cerchio: potrò aggiungere sempre più lati al poligono inscritto, ma questo con coinciderà mai con quel poligono di infiniti lati che è il cerchio. Questa sproporzione non vale solo per la conoscenza di Dio. Anche il finito sfugge all’assoluta praecisio della congettura e questo perché la sola conoscenza possibile per la mente umana è quella che si muove nell’alterità, attraverso comparazioni e commisurazioni: ogni realtà conoscibile, sebbene in sé finita, è suscettibile di indefiniti paragoni, tanti quanti sono gli oggetti finiti e divenienti di un universo infinito. Ma, di fronte a questa consapevolezza, anziché arretrare verso l’annichilimento del conoscere, Cusano riconosce, proprio in questo inarrestabile tendere della mente a nuove e mai definitive congetture, nella frustrazione stessa della possibilità di andare a bersaglio, la partecipazione della mente umana finita a un processo infinito. Attraverso il congetturare, attraverso la coscienza di ipotesi conoscitive sempre parziali e provvisorie, la mente riconosce la potenza ultra-razionale di sé, il valore aggiunto del suo fare e procedere indefinitamente rispetto all’essenza, finita, che è. Se, da un punto di vista conoscitivo, l’inafferrabilità di un oggetto che sfugge all’infinito diventa lo stimolo di una ricerca continua, da un punto di vista antropologico equivale ad ammettere, anche per la mente finita degli uomini, un’azione che partecipa dell’infinito: il primato di una prassi conoscitiva trans-finita rispetto all’“organo”, finito, dell’attività conoscitiva. In altri termini, che ancor più avvicinano la prospettiva di Cusano a quella del De Ente et Uno: l’est del conoscere eccede rispetto alla quiddità (l’ens) della conoscenza.

Come in Dio, così nella conoscenza umana l’essenza non implica né coincide con l’esistenza ed è per questa ragione che, pur senza comprehendere la coincidenza degli opposti, la mente sente e vive la tensione a superare la contrapposizione e a ricercare la concordia. Il limite diventa non già la negazione, ma il valore aggiunto della conoscenza inquisitiva e razionale, nonché la condizione della prospettiva concordista: la consapevolezza della propria insufficienza si traduce nella coscienza stessa dell’insufficienza di una conoscenza oppositiva, esclusiva, divisiva e nel bisogno di considerare la possibilità di cercare oltre le opposizioni, indefinitamente. Questa paradossale coincidenza di finito e infinito, lo specchiarsi nel limite per agire (e non già comprendere) l’illimite, sembrano proiettarsi in qualche modo nel rapporto tra Dio e l’indiscreta imago di Adamo, nella dialettica pichiana di necessità e libertà.