2. Continuità e discontinuità

PRISCA SAPIENTIA E NOVA PHILOSOPHIA

Fin dagli scritti del 1486 – il Commento ai versi del Benivieni, le Conclusiones e l’Oratio, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto fare da introduzione alle Novecento Tesi – l’interesse di Pico per la concordia tra sistemi di pensiero contrapposti è evidente; ed è evidente come tale interesse non risponda né a una ricostruzione storiografica, né ai canoni di una rigorosa filologia e neppure a un’esigenza apologetica, ma sia questione centrale nella dimensione propriamente teoretica del pensiero del giovane filosofo. La portata teorica della concordia e il suo essere intrinseca al nucleo originale della nova philosophia mirandolana costringono Pico a un rigore analitico che era mancato ai molti “conciliatori” disposti a schivare le tesi evidentemente problematiche e innegabilmente in conflitto tra loro, a condizione di dimostrare la compatibilità tra l’una e l’altra auctoritas. Il maneggio sicuro della lingua greca, la buona conoscenza non solo delle fonti classiche ma anche della tradizione teologica medievale permettevano di ampliare lo spettro delle tradizioni a confronto, accedendo direttamente alle fonti e, con l’aiuto di Elia del Medigo e Flavio Mitridate, anche a quelle ebraiche ed arabe (Wirszubski 19891Wirszubski, C. (1989) Pico della Mirandola’s Encounter with Jewish Mysticism, Jerusalem: The Israel Academy of Sciences and Humanities.). Ma era soprattutto la mancanza di un intento apologetico ad allontanare Pico da un modello concordista dal quale anche i bizantini non si erano del tutto allontanati e che era quello che rintracciava termini comuni, o accomunabili, platonizzando Aristotele (è il caso di Bessarione) o aristotelizzando Platone (è il caso di Teodoro di Gaza).

Come è noto, Pico ebbe un rapporto culturale controverso e quantomeno dialettico con Pletone e con Ficino, ma ciò non significa che abbia visto, né nell’uno né nell’altro, un nemico da combattere, e che non abbia riconosciuto in entrambi non solo riferimenti autorevoli, ma anche repertori di motivi, di interessi filosofici, di metodi dai quali comunque apprendere. Sul motivo della concordia, Pico dialogò idealmente con entrambi mantenendosi però su una posizione del tutto autonoma e critica. Come si è in parte già detto, la distanza maggiore rispetto al De differentiis risiede nella critica, drastica, all’opzione deterministica – altrettanto drastica – di Pletone. E l’incompatibilità rispetto a una meccanica consequenzialità deterministica si rispecchia anche, ed eminentemente, nelle modalità della ricerca di una concordia philosophorum et theologorum.

La divergenza da Ficino si definisce, fin dal Commento sopra una canzona de amore, nel quadro del dibattito tardo-quattrocentesco sull’anima. Pico contestava all’amico e maestro la permanenza di una parte dell’anima nel mondo superiore. A questa dottrina, che il commentatore del Simposio ricavava da Plotino, Pico contrapponeva la tesi di una caduta completa nel mondo della diversità e del divenire, sostenuta dai neoplatonici Giamblico e Proclo. Una divergenza dalle importanti implicazioni metafisiche e gnoseologiche. Divergenze che portavano il Signore della Mirandola e Conte di Concordia a negare l’itinerario di una filosofia perenne – che da Zoroastro ed Ermete Trismegisto, attraverso l’elaborazione platonica, avrebbe raggiunto il neoplatonismo tardo-antico e medievale trovando poi, nell’Accademia di Careggi, una recente e coerente interpretazione – quale fondamento mitico di concezioni conciliative antistoriche e filologicamente contestabili. Inoltre, la conoscenza del greco gli permetteva di leggere i testi direttamente e senza il medium delle ottime, ma filosoficamente orientate, traduzioni ficiniane, mentre una conoscenza di Aristotele e dell’aristotelismo antico e medievale sicuramente superiore a quella del «complatonicus» fiorentino, lo studio della teologia medievale e delle tradizioni arabe e giudaiche lo portavano a vedere la continuità di importanti motivi filosofici, vere e proprie costanti gnoseologiche e metafisiche rintracciabili entro tradizioni diverse, tra le quali anche (e di certo non solo) l’aristotelismo e la scolastica.

Pletone e Ficino, ciascuno a modo proprio, avevano posto nell’idea di una prisca theologia le basi di una riflessione capace di calare nella storia lo svolgersi di una verità unica e incorruttibile, escludendo però dal sistema del sapere tutto ciò che si distaccava da quella sola tradizione ritenuta vera. Per parte sua, Pico riteneva che fosse necessario affrontare il problema della discordia nella sua radicalità, senza ricorrere a criteri tali da eludere il dissenso, e quindi senza escludere intere correnti di pensiero o forzarle nell’alveo della tradizione platonica. Occorreva riconoscere l’importanza sia dei contenuti sia degli stili argomentativi delle diverse tradizioni. La «vigorosa dialettica» di Scoto, il «solido equilibrio» di Tommaso, la «fermezza incrollabile» di Averroé sono per Pico parimenti importanti: «tra i greci – si legge nell’Oratio – la filosofia è limpida in generale e casta in particolare»; vi è quella «ricca e copiosa» di Simplicio e quella «elegante e compendiosa» di Temistio; con ammirazione il filosofo parla del «linguaggio sapientemente allusivo» di Plotino e del «lussureggiare della esuberanza asiana» di Proclo, osservando come in tutta la filosofia platonica «rifulga sempre quel το θεῖον, ossia quel ché di divino» (Pico 1942, p. 140).

«Breve quidem corpore, sed amplum viribus», come lo presenta Gianfrancesco Pico, il De Ente et Uno, pubblicato nel 1491, a due anni di distanza dall’Heptaplus, permette a Giovanni Pico di ritornare sul tema della concordia a partire dalla «comunionem inter Aristotelem et Platonem de Uno et Ente». L’occasione dell’opuscolo è quella di dimostrare come i «sectatores» dell’uno o dell’altro filosofo abbiano frainteso il pensiero del maestro, costretti dai limiti di un’interpretazione dogmatica. Ne risulta quindi una lezione di metodo sul tema della concordia o per meglio dire, la dimostrazione, da parte dell’autore, di un ideale e di un criterio concordista originali nel dibattito tardo-quattrocentesco, fondati come sono su presupposti gnoseologici e antropologici.

Giovanni Di Napoli, che nel suo accurato studio del 1965 fu tra i primi a chiarire l’origine problematica del De Ente et Uno nella disputa De Differentiis inaugurata da Pletone, si sforzò di dimostrare la forte influenza del tomismo, alla quale Pico non seppe sottrarsi (Di Napoli 19652Di Napoli, G. (1965) Giovanni Pico della Mirandola e la problematica dottrinale del suo tempo, Roma: Desclee.). Era un’interpretazione decisamente discontinua rispetto a quella di Raymond Klibansky, il quale, nei suoi studi sul platonismo medievale e la tradizione del Parmenide, composti tra il 1939 e il 1943, aveva riconosciuto nell’autore del De Ente et Uno un grande rinnovatore del platonismo entro l’alveo della tradizione platonica (Klibansky 19393Klibansky, R. (1939) The continuity of the Platonic Tradition during the Middle Ages, London: Warburg Institute.). Una divergenza interpretativa, quella che separa la lettura di Klibansky, condotta anche sulla scorta degli studi di Ernst Cassirer sul rinnovamento filosofico del secondo Quattrocento, da quella di Di Napoli, destinata a divaricarsi ulteriormente nella seconda metà del XX secolo.

Al sincretista, platonico, tomista, libero pensatore autore del De Ente et Uno, si è aggiunto – ironizzava Stéphane Toussaint in uno dei migliori e più completi studi sul breve scritto pichiano – il Pico «devoto» di Henri-Marie De Lubac, quello aristotelizzante di Michael J. Allen e quello metafisico-reazionario di Charles H. Lohr. A queste posizioni, proseguiva Toussaint, andavano aggiunte la lettura agostiniana di Silvia Magnavacca, quella scolatico-tomista di Fernand Roulier, quella scotista di Olivier Boulnois e altre ancora (Toussaint 1995, p. 12). Più di recente, nel 2010, è uscita la nuova edizione del trattato pichiano, curata e introdotta da Raphael Ebgi, arricchita da una nota editoriale di Franco Bacchelli e accompagnata da prefazione e postfazione, rispettivamente di Marco Bertozzi e di Massimo Cacciari. Tante ricostruzioni tanto diverse tra loro, che danno la dimensione dalla complessità di un dibattito interpretativo tuttora in corso. Ma ciò che rende il trattato significativo dell’interpretazione della concordia discors della storia filosofica pichiana è anzitutto il fatto che la posizione di Pico non sia riducibile a una sola delle tradizioni che la sostengono e che a renderla tale sia il modo peculiare con cui Pico guarda e interpreta il passato. Ancora attuale il monito di Eugenio Garin di evitare sistematizzazioni forzate della materia tali da mettere in ombra la varietà dei motivi o di subordinarli a un tema privilegiato (Garin 1965, pp. 3-314Garin, E. (1965) Le interpretazioni del pensiero di Giovanni Pico. In: L’opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’Umanesimo, Firenze: Olschki, pp. 3-31.). La concordia, che è l’obiettivo dichiarato del De Ente et Uno, passa attraverso il chiarimento concettuale, l’analisi del senso in cui gli stessi termini furono intesi in modi diversi e passa anche attraverso la reinterpretazione delle filosofie passate alla luce di nuove esigenze. L’intento di Pico non è restaurativo ma costruttivo: formulare i principi di una nuova filosofia fondata sull’idea di concordia di tradizioni di pensiero differenti. Non solo le diverse tradizioni del passato, il focus del suo progetto filosofico, ma la concordia; e la concordia non è l’unità di una sapienza antica da resuscitare, ma il nucleo di una filosofia da costruire. Da costruire a partire dalla molteplicità e dalla differenza e, dunque, attingendo a tutte le tradizioni, senza negarne le peculiarità ma piuttosto ridefinendone i concetti e il valore. Solo attraverso un’adeguata comprensione delle differenze e delle specificità concettuali e terminologiche è possibile una filosofia che non si limiti a giustapporre, ma che interpreti e integri le tradizioni e, segnatamente, quella aristotelica e quella platonica.

L’elemento che meglio caratterizza l’originalità del metodo pichiano è il riconoscimento del carattere plurale delle tradizioni. Sia che si concordi con Toussaint, il quale ha visto in Pico il filosofo che ha dato all’Occidente la coscienza del dualismo dei concetti fondanti della filosofia (Toussaint 1995, p. 15), sia che si segua Garin per il quale eclettismo e sincretismo nel De Ente et Uno sono «in realtà la presa di coscienza di una pluralità di punti di vista, di una molteplicità di visioni fra loro integrabili e suscettibili di una superiore armonia in una “caccia” della verità inesauribile sul piano dell’indagine umana» (Garin 1965, p. 17), di certo c’è che Pico interpreta la ricerca della verità come un’indagine nella diversità, distinguendo quelli che ritiene essere punti di vista diversi, basati su differenti piani logici e argomentativi. La sintesi che cerca non è data dall’assoggettamento di una tradizione a un’altra, ma nasce dal superamento dell’incomprensione: prima si chiariscono i diversi ambiti e i diversi punti di vista, poi si cerca di metterli insieme.

Le parti di cui si compone il De Ente et Uno spingono a letture parziali qualora siano staccate dalla struttura argomentativa nella quale vengono sostenute. Il pensiero di Pico emerge invece chiaramente qualora si consideri l’articolazione intera dell’opera. L’originalità non solo d’intento, ma anche di realizzazione, sta nell’andamento stesso dell’argomentazione, tesa a distinguere, e non già a subordinare, le filosofie del passato.

L’occasione del trattato, stando al Proemio, è la richiesta, rivolta da Angelo Poliziano al Conte della Mirandola, di stendere un breve compendio della Platonis Aristotelisque Concordia, opera alla quale Pico risulta stesse lavorando. La Concordia non vide mai la luce, ma dalle pagine del De Ente et Uno si evince che alcune decadi dovevano esser già pronte al momento della richiesta di Poliziano reduce, a propria volta, da una controversia con Ficino sul modo d’intendere i rapporti tra l’Ente e l’Uno.

Ficino e Lorenzo il Magnifico sostenevano la superiorità dell’Uno sull’Ente e attribuivano questa posizione unilateralmente a Platone, ritenendola inconciliabile con le tesi aristoteliche. Poliziano, per parte sua, nella disputa con Ficino aveva preso le difese di Aristotele, per Pico invece le posizioni platoniche e quelle aristoteliche erano conciliabili e il De Ente et Uno intendeva presentare gli argomenti utili a dimostrarlo.

L’esordio della dimostrazione di Pico consiste nel chiarire come l’Ente sia concepibile in tre modi diversi eppure leciti: può essere assunto come tutto ciò che si contrappone al niente, oppure come ente che deve ad altro il proprio essere, e ancora come l’essere stesso. A seconda dell’accezione scelta, è possibile affermare che Uno ed Essere coincidano, ma anche che l’Uno sia superiore all’Essere (Pico 2010, p. 2165Pico, G. (2010) Dell’Ente e dell’Uno. Edizione a cura di R. Ebgi. Milano: Bompiani.).

In base all’opposizione tra Ente e Niente si arriva a intendere il primo come ciò che è «diverso» dall’altro. Assunta questa accezione, opporre l’Ente all’Uno equivale ad annullarlo. Posta la questione in questi termini, sia Platone sia Aristotele sarebbero – stando a Pico – d’accordo nel ritenere uguali l’Essere e l’Uno. Qualora invece si assuma l’opposizione tra Ente ed Essere, risulta coerente affermare la superiorità dell’Uno (inteso come ciò che ha da sé l’Essere, che è fonte stessa dell’Essere) sull’Ente (inteso come ciò che partecipa dell’Essere). È in questo senso – argomentato nel quarto capitolo – che tanto i platonici autentici quanto Aristotele intendono il primato dell’Uno sull’Ente.