Introduzione

Si quidem in phantasiae quasi Calypsus
vanis praestigiis caecutientem…
brutum est, non homo, quem vides

Giovanni Pico, Oratio de hominis dignitate

Trentuno anni di vita, iniziati il 24 febbraio del 1463 e conclusi il 17 novembre del 1494, misurano la breve e intensa esistenza di Giovanni Pico, Mirandulae Domini e Concordiae Comitis, consumata tra il feudo di famiglia, Bologna, Ferrara,

Firenze, Padova, Parigi, Perugia, Roma. Numerosi e rapidi spostamenti per lo stile di vita di un nobile di campagna, che tracciano l’itinerario di una formazione originale per un umanista insolito.

Firenze, Padova, Parigi, Perugia, Roma. Numerosi e rapidi spostamenti per lo stile di vita di un nobile di campagna, che tracciano l’itinerario di una formazione originale per un umanista insolito.

Bologna è lo studio del diritto; Ferrara sono gli studia humanitatis, la filosofia e forse il primo incontro con Savonarola; Padova è la scoperta di Aristotele e Averroè, ma anche l’insegnamento di Nicoletto Vernia, i contatti con Ermolao Barbaro, la conoscenza di Elia del Medigo ed Emanuele Adramitteno; Parigi è la tarda scolastica e sono gli studi teologali, mentre Firenze è Platone, la cerchia neoplatonica, l’ermetismo, ma anche l’incontro con Lorenzo de’ Medici, con Ficino, Poliziano, Girolamo Benivieni. Roma è il naufragio del progetto di concordia philosophorum et theologorum che ispira la gnoseologia, l’antropologia e la teologia pichiane: il fallimento del grande convegno volto a dimostrare la convergenza delle tradizioni filosofiche e teosofiche, il contrasto con Innocenzo VIII, la condanna delle Conclusiones nongentae.

Ma il mondo culturale di Pico è più ampio rispetto alla topografia segnata dal suo itinerario effettivo. Emanuele Adramitteno e i maestri di greco gli aprono un profondo squarcio sul mondo greco e bizantino e gli propongono l’affinamento di un mezzo filologico, essenziale per accedere alla conoscenza del corpus platonicum, neoplatonicum et hermethicum anche senza la mediazione delle traduzioni di Ficino. Sono gli esiti di una cultura bizantina che oscilla tra le istanze di un platonismo neopagano, sulla linea che collega l’imperatore Giuliano a Giorgio Gemisto Pletone, e un controllo dottrinale rigoroso esercitato anche attraverso l’asserita convergenza con l’aristotelismo.

Elia del Medigo, incontrato a Padova, apre l’orizzonte pichiano alla lingua e alla filosofia ebraica, ai commenti aristotelici arabi ai quali non sarebbe potuto accedere attraverso le traduzioni greche e latine: una tradizione antica, tardoantica e medievale che oltrepassa il mondo greco e romano. E così anche Firenze non è solo l’umanesimo laurentiano, Savonarola, la letteratura volgare, la poesia di Dante; è anche la cabala, alla quale è iniziato dall’ebreo convertito Flavio Mitridate. Un’altra mistica, diversa da quella neoplatonica, ermetica e dionisiana, che Pico ritiene di potere legittimamente disporre nei diversi gradi di un teatro di tradizioni diverse, ma non per questo contraddittorie.

In questo panorama vastissimo per la breve vita del Signore di Mirandola, si radica un pensiero tanto originale quanto debitore allo spettro delle tradizioni vagliate e agli incontri avuti e propiziati. Un pensiero originale per un umanista sicuramente anomalo, che si lascia affrontare da prospettive diverse, suscettibili di interpretazioni non meno diversificate. Nulla di strano, se si tiene conto dell’intento che Giovanni Pico cercò di perseguire durante l’intero corso della sua esistenza: esporre una storia dei pensieri umani costruita sulla differenza eppure strutturata secondo un’intima coerenza. Conte di Concordia, al secolo, quasi che al fustigatore di ogni determinismo e al nemico di qualunque dogmatismo, fosse stata la nascita, il casato, la geomanzia, la genitura segnata da un prodigioso cerchio incandescente nel cielo a imporre l’oggetto di una ricerca che ebbe per telos l’espressione di una concordia discors e come strumento di realizzazione la volontà libera di quell’animale di natura indefinita che è l’uomo.

Anche attraverso il dialogo, reale o ideale, con altri protagonisti “anomali” della cultura quattrocentesca – Pletone, Ficino, Cusano, Alberti, prima di tutti – le pagine che seguono cercano di fare luce su un aspetto centrale del pensiero pichiano, tanto originale nel quadro dell’umanesimo italiano, quanto attuale nel nostro tempo.

In estrema sintesi, e con linguaggio anacronistico per il XV secolo, si può dire che la scoperta di Pico sia quella della diversità come ricchezza: l’idea (o il progetto) di una cultura “globale” prodotta dal riconoscimento della pluralità e della differenza; capace di farsi ecumenica attraverso la legittimazione della molteplicità come un valore e non come il principio dell’errore o causa della corruzione e della dispersione delle cose e del pensiero.

Un mondo culturale, quello sul quale apre lo sguardo del Signore della Mirandola, che ha assunto nuovi confini e che cresce su una quantità inattesa di non uniformabili sfaccettature. Certamente erede di un’antichità gloriosa, ma irriducibile alle sole autorità, contrapposte, di Platone e di Aristotele. Sedimentato nei secoli per il concorso di molte filosofie, di lingue e saperi diversi insediatisi nelle tante religioni abitate dalle civiltà degli uomini. Non (solo) una prisca sapienza da riesumare, monologo di una sola fonte autoritativa vera, in grado di zittire tutte le altre, false, opinabili e vane. Ma (anche) generazioni di nani seduti sulle spalle di antichi giganti, che riescono a vedere meglio e più lontano di loro. Non solo il sapere dei Greci trasmesso all’Occidente latino-cristiano, ma anche una cultura che migra dall’Oriente e che, attraverso le scienze e le filosofie arabe, giudaiche, egizie… si sviluppa, si arricchisce e si trasforma progressivamente nel confronto con le proprie radici. Linguaggi, scienze, scuole, tradizioni diverse e tuttavia non destinate a distruggersi vicendevolmente o a negarsi, ma a riconoscere le rispettive consonanze e complementarità. Un’armonia prodotta non da una sola corda, che annulla o sovrasta ogni altro suono, ma un accordo che garantisce e si giova della polifonia, del contrappunto, delle variazioni e delle differenze.

Il sapere dell’Età Nuova non è quindi, per Pico, il ritorno a una mitica quanto antistorica Età dell’oro, ove il senso delle cose si rivelava integro a un’umanità perfetta nella sua unitaria e immota perfezione; è piuttosto la costruzione di una coerenza complessiva entro una diversità strutturale e storica; la ricerca di una concordanza tra prospettive plurime, da scoprire non al di sopra, ma nel mezzo delle tante forme attraverso le quali si è espresso l’atavico tentativo umano di sondare l’ignoto.

L’unità o la coerenza delle filosofie e delle teologie, proprio perché non è la riesumazione di un’originaria rivelazione occultata dal tempo, ma piuttosto la composizione di una concordia tra parti indipendenti e differenti, non è, per Pico, diversamente da quanto non fosse per i suoi contemporanei, l’effetto di un’anamnesi o di una rivoluzione verso il passato, ma piuttosto una meta, un progetto, una destinazione, un destino da costruire.

Un destino di armonia, di coerenza, di consonanza, che trova il proprio accordo, l’elemento unitario che ne garantisce la “globalità”, non nell’unica verità di un solo sapere rivelato ai profeti o ai filosofi, ma nella costanza e nell’identità della natura umana. Una ricerca che, di conseguenza, discende dal piano di un’ontologia – sempre presente, ma osservata a distanza – e si insedia sul terreno di una meditata antropologia.

Ritmo della storia, dimensione antropologica, tutela della pluralità sono alcuni dei motivi che separano la riflessione di Pico da quella della più parte dei suoi autorevoli interlocutori umanisti e in pari tempo la rendono, ai nostri occhi, straordinariamente “attuale”.

Ma a rendere ancora più complessa e intrigante l’“attualità” che siamo tentati di riconoscere nelle opere del Signore di Mirandola e Conte di Concordia, è il fatto che Pico la vada a ricercare facendo orgogliosamente e autorevolmente tesoro di un’ampia porzione della cultura medievale, vale a dire di quel pensiero “barbaro” al quale gli umanisti avevano dichiarato guerra e dal quale intendevano affrancare una discussione antidogmatica e indiscutibilmente discontinua rispetto al passato più recente. La stessa esigenza di aprire strade nuove Pico pensa di poterla soddisfare integrando ogni tappa nella ricerca umana – anche quella giudicata capziosa, vacuamente altercatoria dei “moderni” – entro il mosaico di un sapere plurale figlio di un’umanità sempre più complessa ma sempre coerente con se stessa.