Fatta chiarezza sui termini e distinti i diversi piani del discorso, Pico passa a esaminare le obiezioni che possono derivare da un eventuale fraintendimento. Il primo argomento da confutare, argomento sostanziale che ricorre in tutta l’opera e caratterizza il metodo dell’esegesi pichiana, è quello secondo cui sia possibile una definizione «in senso assoluto», quella cioè che intende l’Ente come l’opposto del Niente e l’Uno come superiore all’Ente. Da questo fraintendimento discendono altre due tesi erronee: che la materia non sia alcunché e che tuttavia sia unità; che l’Uno sia un concetto più esteso di quello di Ente. La confutazione di Pico poggia sulla concezione (neo)platonica di trascendenza. Da un certo punto di vista sarebbe corretto attribuire a Dio i nomi di Uno, Essere, Buono, Vero. Ma da un altro punto di vista si può egualmente dire che Dio è oltre tutte queste determinazioni. Anche su questo punto – che è la vera questione in gioco – la concordia non si ottiene riducendo la posizione neoplatonica a quella aristotelica o viceversa; non si risolve cioè platonizzando Aristotele alla maniera di Bessarione, o, all’inverso, aristotelizzando Platone e il (neo)platonismo. Al contrario, è riaffermando la concezione dionisiana di trascendenza, contro la tesi che anche Ficino aveva ripreso da Plotino, che diventa argomentabile una pluralità di accezioni tale da rendere compatibili, senza negarli, significati e prospettive diverse.

Mediata dalla trascendenza della mistica medievale e dall’argomentazione negativa rispetto a definizioni assunte come assolute, unilaterali ed esaustive, la posizione dei platonici persiste diversa, ma non è contraddittoria a quanto afferma Aristotele. Non solo: la logica stylo parisiensis e il filtro tomista, che Pico non intende affatto escludere, come avrà modo di ribadire nella controversia con il medico faentino Antonio Cittadini, permettono di privilegiare la subcontrarietà di tesi non alternative nella loro, ma tali da non escludersi né falsificarsi vicendevolmente.

Per potere dimostrare che anche Platone fa coincidere l’Uno con l’Ente, Pico deve ridimensionare l’importanza del Parmenide, attribuendo a questo dialogo una funzione, come egli stesso scrive, meramente dialettica («dialectica quaedam exercitatio»). Privilegia quindi il Sofista, dialogo nel quale Platone riconosce essere «la medesima cosa, il non-uno e il nulla» e di conseguenza «eguali anche l’uno e il qualche cosa» (Pico 2010, p. 214). Dopo di che prova del pari che il non ente non può essere detto uno, per concludere che: «l’ente non conviene al non essere; quindi l’uno non conviene al non ente» (Pico 2010, p. 214). Non altri, ma Platone stesso asserisce «aequale esse ei quod est aliquid» e pone dunque esplicitamente che «l’Uno è l’Ente».

Pico ammette che Platone possa avere pensato il concetto di Uno communius (più esteso) anche rispetto all’Ente, inteso come ciò che si contrappone al Nulla. In questo caso però avrebbe dovuto porre il Nulla stesso entro l’Uno. Solo così il concetto di Uno sarebbe risultato, per estensione, maggiore a quello di Ente. Se s’intende l’Ente come l’opposto del Niente e, in pari tempo, si vuole affermare la priorità dell’Uno sull’Ente, occorre ammettere che Dio stesso abbia in sé il Niente. Tesi, quest’ultima, che stando a Pico, il Sofista esclude del tutto.

Questa la conclusione di Pico: se l’Ente è il tutto che sta opposto al Niente e se l’Uno non contiene in sé il Niente, allora i due termini Ente e Uno sono coestensivi. Si può dunque convenire, con Platone, ma contro gli Accademici e contro l’interpretazione dogmatica del Parmenide, che «se l’Ente non comprende meno cose, come essi vogliono, sono dunque uguali l’Ente e l’Uno» (Pico 2010, p. 214). Se si intende l’Ente come l’opposizione del Nulla, allora la sua estensione (universalità) è massima: non ha nulla fuori da sé, a parte il Nulla. Per questo motivo nessuno può evitare l’identificazione tra l’Uno-Dio e l’Ente. L’alternativa sarebbe affermare o che Dio è Nulla, o che Dio ha in sé anche il Nulla. È in questo senso, secondo Pico, che anche Aristotele, nella Metafisica «mai considera l’ente come inferiore all’uno e inadeguato a comprendere (comprehendat) Dio» (Pico 2010, p. 226). E questo, nonostante Aristotele indichi con il sostantivo ens sia ciò che è per se, sia ciò che è per accidens, sicché non può che ammettere, con piena legittimità e senza che gli possa essere obiettato alcunché, che Dio è «supra ens» in quanto non è per accidens, né si esaurisce in nessuna delle dieci categorie. Ma, così inteso, non solo Aristotele non smentisce Platone e piuttosto lo esplicita, ma trova il consenso di Dionigi l’Aeropagita e anche di scolarchi assai poco dogmatici, quali Giorgio Gemisto Pletone e quel «grande tra i platonici» che fu l’imperatore Giuliano:

Anche l’imperatore Giuliano, infatti, grande tra i Platonici, afferma che il nome ente a nulla si addice meglio che a Dio. Gemisto, poi, non dissente da Giuliano, in quello scritto in cui risolve le questioni sollevate da Bessarione (Pico 2010, p. 219).

Ancora una volta, merita attenzione, più della conclusione alla quale Pico giunge, il metodo che sceglie per conciliare. La concezione platonica di ente non è la stessa difesa da Aristotele nella Metafisica, il platonismo di Giuliano non è lo stesso di Platone e nemmeno quello di Ficino, ma neppure la prospettiva del Sofista è identica a quella del Parmenide. Pur nelle irriducibili differenze, sono tuttavia posizioni che concordano nel negare la superiorità dell’Uno rispetto all’Ente inteso nella sua accezione più ampia e su questo s’incontrano. Ciò che invece non si concilia entro la pluralità delle interpretazioni, è la lettura dogmatica del Parmenide proposta da Plotino nella Theologia platonica e difesa dagli esegeti neoplatonici, da Damascio fino a Ficino.

Ma, a ben vedere, nemmeno l’interpretazione teologica che identifica Dio e Uno, asserendone la superiorità rispetto all’Ente, risulterebbe del tutto inconciliabile, come la Metafisica di Aristotele dimostra quando distingue l’ente per se dall’ente per accidens, non fosse per l’unilateralità che rivendica presso quanti, per via dogmatica, impongono l’esclusione di tutte le altre interpretazioni, compresa la lettera del dialogo platonico:

a proposito del Parmenide, per prima cosa dirò che in tutto il dialogo non viene asserito alcunché di dogmatico; e se anche venisse attestata la posizione di un qualche principio, non si tratterebbe di nulla di così esplicito da fare attribuire a Platone tale tesi (dogma) (Pico 2010, p. 209).

Non solo Aristotele si concilia con Platone, ma il Platone del Sofista e, in generale il Platone letto in maniera non dogmatica, anticipa, seppure in modo criptico, quanto contenuto nel libro sesto della Metafisica. Resta la diversità delle tradizioni; ma tale diversità non è inconciliabile e la conciliazione tra l’una e l’altra prospettiva è orizzontale e reversibile. Se infatti per ens s’intende ciò che partecipa dell’Essere, non solo gli aristotelici, ma anche i platonici concordano nel porre l’Uno-Dio superiore all’Ente.

Pico pone una distinzione tra nomi astratti e nomi concreti volta a dimostrare che il termine Ente può essere inteso sia in astratto, come sinonimo di Essere, sia in concreto, come ciò che è Ente perché partecipa dell’Essere. Ora, se intendiamo come Ente ciò che partecipa dell’Essere, Dio non è un ente. In questo senso, anche per i seguaci di Platone si può dire che Dio sia diverso dall’ente, che sia cioè un super ens, fonte e pienezza di ogni essere.

È questo, stando a Pico, il modo in cui Platone intende la trascendenza dell’Uno sull’Essere, esattamente come farà Aristotele, nel sesto libro della Metafisica. Per giungere a questa conclusione, Pico riassume in tre punti la posizione degli aristotelici:

Aristotele dice che l’ente si divide in ciò che è per sé e ciò che è per accidente, distinguendo poi ciò che è per sé in dieci categorie. Senza alcun dubbio, per i buoni interpreti, Dio non può rientrare in questo genere di essere, dal momento che Dio non è né ciò che è per accidente, né è contenuto in alcuna delle dieci categorie in cui si suddivide ciò che è per sé (Pico 2010, p. 227).

Posta poi la distinzione tra sostanza e accidente, «intendiamo l’essere in modo tale che Dio risulti esserne al di sopra (supra ens) e non sia da esso compreso (sub ente), come insegna Tommaso nel primo libro dei Commenti alle Sentenze teologiche» (Pico 2010, p. 227). Chiamando in causa anche Tommaso, Pico ritiene di potere dimostrare che «non sfugge ai peripatetici in che modo Dio possa intendersi come superiore all’ente» e affermare per questa via, che «fu Aristotele a dare tra i primi a Dio questi attributi, del bene cioè e dell’unità» (Pico 2010, p. 227).

Differenza, ma non contraddizione, anche nel quinto capitolo, ove Pico mostra come vada correttamente intesa la trascendenza dell’Uno secondo i (neo)platonici. Anche in questo caso non c’è un’autorità che comprenda e omologhi a sé l’altra, vuoi negandola, vuoi stravolgendone il senso, ma c’è una concordia rispettiva e simmetrica, che non è mai coincidenza assoluta, così come non si dà assoluta opposizione. Dopo avere illustrato come la concezione aristotelica dell’ente-uno non collida con la filosofia platonica, Pico passa infatti a difendere la concezione neoplatonica indicando addirittura elementi di sintonia con una scolastica aristotelica, in verità assai più ortodossa di quanto non piaccia al Conte della Mirandola pensare.

Dio può essere chiamato «mente, intelletto, vita, sapienza» o può essere situato «al di sopra di tutti questi nomi» (Pico 2010, p. 245): entrambe le vie sono vere et consone. In questo senso Platone non dissente da Aristotele:

nel libro sesto della Repubblica, pone Dio, definito in quel testo idea del bene, sopra la sfera dell’intelletto e degli intellegibili, attribuendo al primo la capacità d’intendere e al secondo il carattere d’intelligibilità, mentre Aristotele sia solito definire Dio intelletto, intelligente e intelligibile. Anche Dionigi l’Areopagita, infatti, pur confermando quanto detto da Platone, non giungerà tuttavia a negare, in accordo con Aristotele, che Dio conosce se stesso e le altre cose. Ma se Dio conosce se stesso, allora è intelletto e intelligibile, giacché chi conosce se stesso deve essere in grado di conoscere ed essere conosciuto (Pico 2010, p. 245).

Per Pico, quando si procede attraverso opposizioni contraddittorie – ente/niente, perfezione/non-perfezione – dire che Dio è altro dall’intelletto significherebbe dire che Dio non può conoscere, così come dire che è altro dalla vita significherebbe dire che è morte. Va da sé che né Aristotele, né Platone, né Dionigi, affermerebbero che Dio non conosce, che non è vita o non è sapienza. La via della teologia positiva si basa su questa logica e la predicazione affermativa degli attributi divini è, in questo senso, legittimata da entrambe le tradizioni, a condizione però che sia riconosciuta per quello che è: una prospettiva razionale e, proprio per questo, non esaustiva rispetto a ciò che trascende la ragione. Ma, aggiunge Pico, si può pensare anche alla perfezione assoluta come fonte e somma di tutte le singole perfezioni. Se si pensa alla perfezione assoluta in relazione alla determinatezza delle singole perfezioni, si può affermare con altrettanta e superiore legittimità che Dio è diverso e superiore alla vita, alla sapienza, all’intelletto. Infatti Dio è insieme tutte queste perfezioni, ne è la fonte e la pienezza. E in questo senso si può anche dire che Dio è oltre la vita, oltre la sapienza, oltre tutte le determinazioni particolari. È pertanto corretto, se si procede per opposizioni privative anziché contraddittorie, tanto affermare che Dio è l’Uno, l’Essere, il Buono, il Sapiente, quanto asserire che Dio è la fonte stessa di tutto ed è quindi oltre l’ente e oltre tutte le determinazioni pur legittime, ma particolari che ha storicamente ricevuto, in quanto fonte stessa e pienezza dell’Essere.