4. C’È UN PRIMA E UN DOPO

Maura Foresti

“Raro” è un lemma pieno di impliciti, accostato a “malattia” porta con sé: diversità, solitudine, discriminazione, cronicità, scarsezza di professionisti competenti e di conoscenze scientifiche, incertezza della prognosi, farmaci orfani. Se aggiungiamo la componente genetica, gli impliciti corrono anche verso la generatività e arrivano alla definizione stessa di essere umano, toccando temi di complessità notevole.
Si capisce, dunque, come la comunicazione della diagnosi di una malattia rara a un individuo portatore o ai suoi genitori, se questo è in età pediatrica, sia un momento universalmente riconosciuto dai medici come difficile. Nella esperienza clinica, grazie ai resoconti prodotti dai pazienti, anche ad anni di distanza, si riscontra spesso che la comunicazione di una condizione genetica rara può assumere caratteristiche variamente traumatiche. Le tante testimonianze cliniche raccolte potrebbero essere ben riassunte dalla frase: c’è un prima e un dopo.
La letteratura scientifica degli ultimi decenni si è molto interessata dell’argomento (Starke et al. 2002; Liao et al. 2009), mettendo in luce il potenziale altamente stressogeno e psicopatogeno di una comunicazione di questo tipo di contenuti, capaci di stravolgere il mondo di cognizioni e aspettative di un individuo rispetto al proprio futuro: è documentato che una tale esperienza possa causare varie psicopatologie dal disturbo post-traumatico da stress ai quadri ansioso-depressivi.
Al di là delle molte utili indicazioni che si possono rinvenire in letteratura (riassunte in forma di elenco nei prossimi paragrafi) su come comunicare tale tipo di informazione, preme chiarire che non è possibile che tale notizia sia indolore. Pertanto, ciò che è assolutamente necessario per comunicare tali contenuti è prevedere, da parte di chi comunica, un adeguato accoglimento della naturale reazione di dolore, dando spazio e tempo alle persone che la ricevono per poterla integrare nel loro mondo di pensieri e progettualità. Il problema è che il vissuto dell’essere umano che scopre una tale verità su sé stesso, o sul proprio figlio, è talvolta un dolore di proporzioni devastanti. Occorre incontrare questo dolore per poterne comprendere appieno la sfida. Talvolta anche gli operatori cercano di difendersi da tale incontro, per la paura, affatto infondata, di esserne travolti. Si tratta, infatti, di maneggiare un materiale “ad alta tossicità”, come ha messo ben in luce la letteratura scientifica sul burnout.
Da queste premesse, ovvero che non sia possibile comunicare tale tipo di informazioni senza causare un intenso dolore, discende che l’obiettivo della comunicazione diagnostica dovrebbe essere non tanto il solo passaggio di informazioni, bensì la possibilità per le persone che ricevono tali informazioni di avere il necessario supporto per poterle integrare, e raggiungere un nuovo stato di equilibrio. Insomma, se sappiamo di dover infliggere una necessaria ferita, dovremo stare attenti a evitare le possibili “infezioni” e le complicanze, per non sentirci dopo cattivi operatori e per non divenire bersagli di intensi sentimenti negativi, difficili da sopportare.
Ecco allora le caratteristiche generali, che la letteratura è giunta a descrivere, per ottenere una adeguata comunicazione, in grado cioè di preservare la salute di tutti gli attori coinvolti (Fig. 8).

Fig. 8. La rete per la presa in carico del paziente con malattia rara.

La comunicazione dovrebbe:

  • avvenire in un luogo dedicato, riservato dall’attività del reparto e, soprattutto, dovrebbe essere trasmessa in modo non frettoloso, ma prevedendo tempi adeguati;
  • essere data all’interessato insieme a un parente oppure, in caso di minori, ai genitori in coppia;
  • essere accompagnata dalla programmazione di almeno un ulteriore incontro esplicativo, entro breve tempo;
  • prevedere l’offerta di supporto/consulenza psicologica;
  • fornire un recapito cui poter fare riferimento da quel momento in poi,
    per informazioni sulla condizione che è stata diagnosticata;
  • essere accompagnata dall’offerta di opuscoli informativi, di contatti con
    altri soggetti portatori e/o con associazioni di pazienti o genitori;
  • essere l’espressione di un pensiero condiviso da una equipe multidisciplinare e da una rete di professionisti.

    Inoltre, in caso di minori, la comunicazione dovrebbe gettare un seme che avvii un “dibattito interno” nei genitori, su come comunicare col bambino/ragazzo in merito alla diagnosi, nel corso del suo futuro sviluppo. A questo proposito, infatti, esiste una certa letteratura sulle difficoltà dei genitori nel comunicare ai figli le condizioni croniche di cui sono portatori, con ampie conseguenze sul modo in cui il futuro adulto gestirà ed elaborerà la propria condizione clinica (Sutton et al. 2006; Suzigan et al. 2004). In merito a questo ultimo punto, spesso la consulenza o l’intervento di uno psicologo, esperto di età evolutiva e di malattie rare, si rende necessaria.
    Due fasi della vita pongono sfide specifiche che richiedono ulteriori accorgimenti: la fase prenatale e l’adolescenza.

4.1. Diagnosi in fase prenatale

Molti studi hanno cercato di evidenziare le gravi minacce implicite contenute nella diagnostica prenatale, dovute principalmente a due ordini di ragioni: il primo è connesso al fatto che la gravidanza è un momento di grande delicatezza della psiche di una futura madre, che cerca di prepararsi, sia in pratica sia attraverso le fantasie sul nascituro, ad accogliere un nuovo essere umano, con il quale esiste già una relazione; il secondo è connesso al fatto che il rapporto tra il neonato e i propri caregivers è un dispositivo fondante dello sviluppo di ogni essere umano. Gli adulti infatti, avendo cura del nuovo nato, svolgeranno le cruciali funzioni di imprinting, attivazione e conduzione di tutto il suo sviluppo mentale (Camaioni, Di Blasio 20071Camaioni, L., Di Blasio, P. (2007) Psicologia dello sviluppo, Bologna: Il Mulino.).
In fase prenatale, le fantasie assumono un potere molto maggiore che in altri stadi della vita. In tale fase, le parole pronunciate dai medici sono potentissime, perché cadono in questa area delle fantasie genitoriali sul nascituro: nella pratica psicologica clinica accade quotidianamente di raccogliere testimonianze su come le informazioni ricevute siano indelebili e, purtroppo, anche facilmente fraintendibili.
Innumerevoli studi ormai, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno messo in luce l’importanza cruciale delle esperienze di accudimento precoce, così come l’importanza delle aspettative e delle fantasie degli adulti che attribuiscono un senso all’esperienza del neonato (Winnicott 19702Winnicott, D. W. (1970) Sviluppo affettivo e ambiente, Roma: Armando.). Ecco perché si dovrebbe prevedere sempre un incontro per comunicare l’esito, positivo o negativo che sia, di una diagnosi prenatale: per evitare che il solo fatto di essere contattati telefonicamente si traduca già in una comunicazione negativa, che porta con sé ore o giorni di angoscia senza nome. Ecco perché si dovrebbe preparare psicologicamente, in modo molto accurato, le coppie che si sottopongono a tali procedure diagnostiche, facendone realmente un’occasione di tutela preventiva della salute, in cui possano riflettere sulla loro avventura genitoriale e sulla loro disponibilità a ricevere notizie non positive dalla procedura diagnostica stessa. Ecco perché, infine, in caso di una diagnosi prenatale di malattia rara occorrerebbe sempre offrire alla coppia genitoriale, dopo la consulenza col genetista, una consulenza con i pediatri specialisti della condizione e con uno psicologo esperto.

4.2. Diagnosi in adolescenza

L’altro momento che richiede un’accortezza particolare è l’adolescenza. Si tratta di una fase dello sviluppo che negli ultimi decenni ha richiamato molta attenzione da parte della società (teniamo conto che l’adolescenza non esisteva come categoria fino agli inizi del secolo scorso) e della scienza psicologica. La fase puberale che ne caratterizza l’inizio – seconda, per importanza, solo alle fasi di sviluppo embrionale e perinatale – è l’epoca dello sviluppo umano caratterizzata dalle più significative trasformazioni che riguardano il corpo (maturazione biologica), la mente (sviluppo cognitivo) e il comportamento (rapporti e valori sociali). La scoperta di una malattia rara, in questo stadio dello sviluppo, può essere molto più difficile da accogliere e può scatenare reazioni molto complesse da contenere ed elaborare (Sawyer et al. 20033Sawyer, M., Couper, J., Martin, J., Kennedy, J. (2003) Chronic illness in adolescents, The Medical Journal of Australia, 179(5): 237.). L’intervento di uno psicologo esperto in età evolutiva si rende, spesso, necessario e deve prevedere l’adolescente come interlocutore principale, sebbene il confronto con la famiglia debba essere compreso, rimanendo però, nella maggior parte dei casi, separato da quello col paziente.

4.3. Elaborazione della diagnosi

Sono ben note ai medici, che si confrontano quotidianamente con comunicazioni diagnostiche difficili, le reazioni più comuni alle brutte notizie: incredulità (richiesta di ripetere esami per essere certi che non siano un errore), confusione cognitiva e diniego (tempo dopo la comunicazione, il paziente sostiene di non essere stato informato di una parte o di tutto quanto gli era stato effettivamente comunicato, oppure ha frainteso parti cruciali della comunicazione) o la fuga (pazienti che mettono da parte la diagnosi, non accedono al follow-up proposto, dimenticano di prenotare esami prescritti, non parlano con nessuno della diagnosi ricevuta). Queste difese impediscono che si avvii il sano processo di elaborazione della comunicazione avvenuta. Tale processo prevede che, attraversando il dolore portato con sé dalla verità negativa, si arrivi a integrarla nel proprio mondo di cognizioni e ad accogliere le cure e le risorse proposte. Sono queste difese a spiegare anche il frequente isolamento di molte famiglie e di molti malati rari.
Il processo di elaborazione della diagnosi si attiva lentamente dopo la comunicazione e richiede un tempo variabile; è necessario controllare che si avvii correttamente e, nel caso delle condizioni rare dell’età evolutiva, va monitorato nel tempo (D’Alberton 20184D’Alberton, F. (2018) Bambini in ospedale: un approccio psicoanalitico, Milano: Franco Angeli.).
Innanzitutto, come anticipato, è necessario prevedere almeno un secondo incontro dopo una comunicazione diagnostica, proprio per potersi accertare del fatto che sia iniziato adeguatamente un processo di elaborazione. Qualora ciò non fosse avvenuto, occorre mettere in campo i necessari interventi psicologici specifici (consulenza psicologica, gruppi di discussione guidati da uno psicoterapeuta, percorsi di psicoterapia mirati). Pertanto, se il processo si è correttamente avviato e il dolore delle notizie è contenuto, non sarà necessario predisporre altri interventi; qualora, invece, le persone che hanno ricevuto la notizia siano molto sofferenti, sarà necessario offrire loro un percorso di alcuni colloqui che si dipanino nel tempo e che li accompagnino a contenere, e pensare, quel grande dolore che non riescono a domare.

In breve, possiamo dire che quando la condizione rara comunicata impatta pesantemente la qualità di vita o le aspettative future, quando si presentino sintomi ansiosi o depressivi, quando un adolescente mostri una reazione rabbiosa o ritirata, o disinvesta i propri progetti vitali, occorre intervenire con strumenti psicoterapeutici opportuni; quando il dolore di una coppia genitoriale rischia di danneggiare il dispositivo relazionale dello sviluppo, perché produce un’interazione disfunzionale con il piccolo, occorre offrire un intervento specifico che riattivi la relazione madre/padre-bambino (la cosiddetta consultazione partecipata, cfr. Vallino 20095Vallino, D. (2009) Fare psicoanalisi con genitori e bambini, Roma: Borla.); quando sentimenti di colpa o vergogna danneggiano la vita relazionale di un soggetto malato raro (o della sua famiglia in età pediatrica) occorre offrire alcuni colloqui psicologici, che possano affrontare questi sentimenti psicopatogeni e durante i quali possa essere opportunamente veicolata la proposta di contatti con associazioni, di incontri di gruppo condotti da un professionista, o di mutuo aiuto, che facciano sentire meno soli, unici e sbagliati.
Poiché l’accettazione di certe dolorose verità è una grande sfida per l’essere umano, possiamo concludere che la comunicazione diagnostica di una malattia rara andrebbe intesa come un processo multidisciplinare – che coinvolga medici, psicologi e associazionismo – piuttosto che come un evento puntuale che si concluda in un mero incontro trasmissivo di informazioni, e dovrebbe tener conto delle differenze della condizione diagnosticata, del contesto e del momento di sviluppo o di vita del soggetto, predisponendo percorsi specifici per patologia e per le fasi delicate dello sviluppo sopra descritte.