2. ADORARE ATEN

Al momento dell’annuncio, nelle prime tre stele di confine, della fondazione di Akhetaten, le dottrine relative all’Aten avevano già attraversato diverse fasi: la coesistenza del nuovo culto solare con Amon e altri dei, la decisione di costruire templi in suo onore a Karnak, la definizione di un suo lungo nome didascalico, scritto poi all’interno di due cartigli, la creazione di una nuova iconografia divina e, infine, l’abbandono di Tebe, regno di Amon, e il cambiamento di buona parte dei nomi del “nuovo” re Akhenaten. Anche se non conosciamo l’anno preciso in cui il sovrano, la sua famiglia e la corte si trasferirono ad Akhetaten, una buona parte dell’élite tebana decise di seguire il faraone nella nuova città, ad esempio «il flabellifero alla destra del re, padre divino» Ay (TA 25), i generali May (TA 14) e Paatenemheb (TA 24), «l’intendente della casa di Akhenaten» Ahmes (TA 3), il «ciambellano» Tutu (TA 8), i sommi sacerdoti di Aten Meryra (I) (TA 4) e Panehsy (TA 6), il supervisore degli alloggi di Nefertiti Meryra (II) (TA 2), «l’intendente» della regina Tye Huya (TA 1), lo «scriba regale» Ramose (TA 11), il medico Pentju (TA 5), lo «scriba regale e sovrintendente del grande palazzo interno del faraone» Apy (TA 10), il tesoriere Setau (TA 19) e altri ancora. Anche Parennefer, che si era già fatto preparare una tomba a Tebe, si fece costruire una nuova sepoltura ad Akhetaten (TA 7). Non sappiamo invece cosa decisero il visir Ramose, la cui tomba tebana contiene alcune immagini del re prima e dopo la sua riforma, e Kheruef, entrambi non attestati ad Amarna. È stato suggerito che i danni apportati intenzionalmente al nome e alle immagini di Kheruef all’interno della sua tomba a Tebe potrebbero essere il risultato del suo rifiuto di seguire il sovrano nella nuova sede.

Nel corso dei primi anni tebani, il sovrano era riuscito a formare un gruppo di funzionari disposti a spingersi verso qualcosa di nuovo e ad abbracciare l’adorazione esclusiva di un’unica divinità. Si trattava, di fatto, di un ristrettissimo gruppo di persone su cui poggiava il funzionamento del potere centrale, al cui vertice vi era, ovviamente, il faraone. I testi presenti all’interno delle loro tombe ad Amarna sono di primaria importanza per comprendere sia il tipo di relazione che univa questi dignitari al re, sia aspetti fondamentali dell’atenismo e come questa dottrina fu recepita e trasmessa dalla classe dirigente di Akhetaten. Spiccano, in primo luogo, il “grande inno” all’Aten nella tomba di Ay (TA 25) e il cosiddetto “piccolo inno”, presente in ben cinque sepolture, ritenuti i principali manifesti delle credenze del dio sole; ma anche tutti gli altri testi – nei quali inni all’Aten, formule religiose e accenni autobiografici si mescolano tra loro – contribuiscono a rendere il quadro di questo breve periodo della storia dell’Egitto antico un po’ meno sfuocato.

Nel “grande inno” e nelle altre iscrizioni che vedremo sono illustrati i temi centrali delle dottrine dell’Aten. In primo luogo, la nuova iconografia del dio sole come un disco solare da cui dipartono sottili raggi trova un corrispettivo nelle descrizioni testuali. Come si vedrà, i testi insistono moltissimo sul «vedere» il sole/Aten nel cielo. La vista, di cui gli occhi sono lo strumento, è il primo mezzo di comunicazione, il modo in cui gli esseri viventi possono percepire la presenza del divino e possono prendere consapevolezza di loro stessi grazie ai raggi e al loro calore, tanto da far proclamare al medico di corte Pentju: «quando appari, essi vedono e quando doni loro i tuoi raggi, essi diventano consapevoli di loro stessi».

L’idea che una divinità sia eterna sembra estranea al pensiero religioso egiziano. Tutto ha un inizio, pertanto anche Aten, al pari di altre divinità creatrici, si presenta come un principio supremo che si è auto-generato, anche se come ciò sia avvenuto rimane avvolto nel mistero. Così come ha creato se stesso, Aten crea tutto ciò che esiste, è il fondamento di ogni cosa ed essere vivente, un’energia allo stato puro in un perenne movimento ciclico fatto di albe e tramonti. Il dio «appare», «si manifesta», «sorge» e «tramonta» giorno dopo giorno. Quando egli sorge al mattino e risplende all’orizzonte, le sue creature – nessuna esclusa – si mettono in movimento, riprendono a vivere la loro esistenza, dopo una notte trascorsa nell’incertezza dell’oscurità. Ed è la luce irradiata quotidianamente dal disco a essere la fonte stessa della vita. Il tema della luce nell’atenismo è così importante da aver spinto Erik Hornung a equiparare Akhenaten a Albert Einstein, nel momento in cui il sovrano «ha intrapreso il tentativo di spiegare l’intero universo umano e naturale a partire da un unico principio. Come Einstein, anche Akhenaton ha posto la luce come punto di partenza assoluto» (Hornung 1998, p. 118).

Come i raggi dell’Aten si estendono su tutto ciò che ha creato, anche la sua azione vivificatrice non si limita all’Egitto, ma coinvolge tutte le popolazioni, gli animali, uccelli e piante della terra intera. Il “grande inno” della tomba di Ay e i testi della tomba di May ben esprimono l’idea che Aten sia una divinità universale, che si prende cura di tutto e di tutti e che ogni essere vivente, in quanto sua creazione, può interagire con essa nel momento in cui si mostra all’orizzonte all’alba.

Oltre a «vedere» Aten, gli uomini hanno a disposizione un’altra via per entrare in contatto col dio, ossia adorandolo. Quando il ciambellano Tutu, nella sua tomba, dichiara «io sono venuto a te in adorazione dei tuoi raggi, O Aten vivente e unico. Tu sei l’eternità e il cielo è il tuo tempio…» chiarisce un importante aspetto teologico: Aten, rendendosi visibile a tutti attraverso la sua luce e i suoi raggi, non è nascosto, come le altre divinità del passato, nell’oscurità di un sancta sanctorum di un edificio sacro, bensì è visibile a tutti e il cielo è il luogo verso cui indirizzare le proprie preghiere, perché quella è la sede della divinità. I templi dell’epoca di Akhenaten non sono più come gli edifici precedenti – concepiti per custodire al loro interno le statue degli dei – bensì strutture a cielo aperto nelle quali Aten, alto nel cielo, è presente attraverso i suoi raggi e la sua luce. Questa scelta architettonica va di pari passo con l’abbandono della figura del dio solare a corpo umano e testa di falco a favore di un disco con raggi. Le immagini tradizionali e le statue – attorno alle quali ruotava la vita cultuale del tempio – sono ormai ritenute obsolete, non più idonee a esprimere la natura della divinità. Ciò non implica che Aten sia una divinità più accessibile e comprensibile agli uomini rispetto agli altri dei. Anche se l’iconografia come disco – a differenza di quella antropomorfa e zoomorfa – mirava a rappresentare la manifestazione divina visibile a tutti nel cielo diurno, la piena conoscenza dell’essenza divina rimane una prerogativa esclusiva del re e, a livello inferiore, della sua famiglia.

Il primo nome didascalico scelto da Akhenaten per il suo dio – «ankh Ra-Horakhty che gioisce all’orizzonte nel suo nome di luce [= shu] che è in Aten» – è un chiaro manifesto teologico, che riassume gran parte dei temi sviluppati nei testi religiosi dell’epoca. Il primo termine ankh, «vita, vivere», può essere inteso come un augurio: «Viva Ra-Horakhty!», ma evoca forse anche il tema della vita, generata dalla stessa divinità. Sin dall’inizio del regno, Akhenaten non rinuncia a presentare il suo dio come un aspetto di Ra-Horakhty, letteralmente «Ra-Horo-dei-due-orizzonti», antica divinità associata ai fenomeni divini collegati all’astro, che sorge dall’orizzonte orientale e tramonta nell’orizzonte occidentale. Ma la prima informazione offerta sulla divinità grazie al suo lungo nome didascalico, ben prima di specificare che si tratta di «luce» che è nel disco, è che essa «gioisce all’orizzonte», ossia si rallegra nel momento in cui si manifesta. Il tema della gioia è fondamentale per le dottrine legate all’Aten, poiché essa unisce il dio al suo creato. Se Aten gioisce all’orizzonte quando sorge, tutte le forme di vita sono animate da un sentimento analogo, sono pervase dalla contentezza, perché la contemplazione stessa della divinità, ossia della fonte della vita, il fatto di percepirne la luce e il calore e la consapevolezza di esistere grazie ad essa non possono far altro che rendere le sue creature felici: il dio «è contento ogni giorno in cielo», mentre il cuore del re esulta di gioia e tutte le sue creazioni giubilano. La dottrina dell’Aten insegna una gioiosa celebrazione dell’esistenza. Ma viene il dubbio che questo tema, su cui i testi tanto insistono, sia soprattutto uno strumento politico. Più che una condizione naturale dell’uomo, il vivere in gioia sembra possibile solo attraverso la contemplazione e l’adorazione dell’Aten. Il fedele è invitato a vivere in gioiosa sintonia col divino, fonte di vita, e tutti devono celebrare e gioire, in quanto parte di un’esistenza perennemente in festa.

Un altro aspetto primario dell’atenismo, e che lo differenzia di gran lunga dalle credenze conosciute in precedenza in Egitto, è il fatto di essere stato svuotato di qualunque elemento mitologico. Nei testi solari dei periodi precedenti, in particolare della XVIII dinastia, Amon-Ra appariva sì come un dio creatore, universale e responsabile dell’esistenza di tutte le creature, ma continuava a essere associato ed equiparato ad altri dei e a essere descritto mentre si sposta nel cielo sulle sue barche, una per le 12 ore diurne e una per le 12 ore della notte. Era il percorso notturno del sole a creare preoccupazione, in quanto qui il dio incontrava, tutte le notti, il serpente Apep, simbolo del male, che tentava di interrompere il viaggio del sole.

Benché Apep fosse sempre sconfitto e il suo corpo trafitto da un arpione o da coltelli, la sua stessa esistenza creava un tocco di incertezza al procedere del percorso del sole e rappresentava la minaccia, sempre latente, che il cosmo potesse essere rovesciato. L’interruzione dei viaggi della barca solare1Vedi Glossario – BARCA SOLARE: Il viaggio quotidiano del dio sole era mitologicamente immaginato come un viaggio su una barca. Di notte, con il suo equipaggio, Ra attraversava l’aldilà con la «barca della notte», per poi percorrere il percorso diurno sulla «barca del mattino». nel cielo avrebbe implicato la fine della vita così come era stata concepita e stabilita dal dio creatore. Nulla di tutto ciò è presente nell’atenismo. Non è fornita nessuna informazione su cosa accada ad Aten durante le ore notturne, se non il fatto che, quando tramonta nel suo orizzonte occidentale, egli riposa, mentre la terra, momentaneamente privata della presenza del dio, è avvolta nell’oscurità, con le sue creature gettate in uno stato equiparato alla morte. L’assenza di Apep o di nemici rese il dio Aten perfetto, il suo sorgere quotidiano inevitabile, così come la sua scomparsa inconcepibile.

Trascorsa la notte, tutti gli esseri viventi si rianimano, richiamati alle loro vite dall’apparire del disco in cielo e dalla sua luce. Le sue creature, tutte, lo adorano, gioiscono e sono di fatto invitate a vivere nella realtà sociale e naturale: gli animali si muovono – chi volando in cielo, chi spostandosi sulla terra sulle sue zampe o strisciando, chi guizzando nelle acque – mentre gli uomini si alzano e si vestono per mettersi al lavoro e intraprendere le loro attività.

Ma tutto ciò a che scopo? Il mondo non è il frutto di un’azione involontaria del suo creatore, bensì il risultato della volontà divina. Come si legge nel “grande inno”, il dio ha creato tutto ciò che esiste nella sua solitudine originaria proprio al fine di contemplare la sua stessa creazione dall’alto del cielo distante: «Tu ti sei messo in movimento perché ciascun occhio esista; tu hai creato i loro volti affinché tu non veda te stesso [come] unica [cosa] che tu hai fatto.» A loro volta, gli uomini vedono il dio in cielo e ne percepiscono la luce e il calore. L’impossibilità di vedere Aten equivale al morire, tanto che il sacerdote di Aten Panhesy dichiara: «[Quando] egli appare, ogni terra è in gioia e i suoi raggi sono sugli occhi di tutto ciò che ha creato. Si dice ‘vita’ quando lo si vede, [ma] si muore quando non lo si vede».

Tuttavia, se da un lato il «vedere» dio in cielo implica avere una testimonianza chiara della sua esistenza, dall’altro ne offre solo una conoscenza parziale, limitata alla sua manifestazione visibile. Secondo le parole di Ay, «sebbene egli [= Aten] sia davanti ai nostri volti, non conosciamo il suo corpo». Il dio trascende infatti la realtà da lui stesso creata; benché visibile, egli è «lontano», «alto» e «distante». La natura dell’Aten, ossia della fonte da cui proviene la vita, è inconoscibile ed è accessibile solo al figlio della divinità, Akhenaten, come succintamente esprimono le parole del “grande inno”: «Tu sei nel mio cuore! Non c’è nessuno che ti conosca al di fuori di tuo figlio Neferkheperura Uaenra, che tu hai reso saggio nei tuoi consigli e nella tua forza». A questo proposito è interessante notare come il re e Nefertiti siano spesso ritratti mentre offrono, sollevandoli verso l’Aten, i due cartigli contenenti il nome didascalico. Il re stesso aveva modificato uno dei suoi nomi in «Colui che eleva (utjes) il nome di Aten». Il verbo utjes può significare “alzare” nel senso di spostare verso l’alto, ma anche in senso spirituale o “promuovere”. Attraverso questo tipo di rituale, così tipico del tempo di Akhenaten, il sovrano, accompagnato da Nefertiti, desiderava sottolineare l’importanza dei due cartigli divini, i quali – a differenza della sua immagine come disco nel cielo – comunicano un’idea più astratta della divinità, solo da lui stesso compresa appieno.

Anche i temi espressi dal termine Maat – ossia il principio che rappresenta tutto ciò che è giusto e che governa il mondo creato – sono fondamentali nell’atenismo. Per tradizione i re d’Egitto contribuivano al mantenimento della Maat in primo luogo attraverso la gratificazione degli dei presenti sul territorio nazionale. Abbiamo visto come Amenhotep IV/Akhenaten avesse differenziato nettamente Aten da tutte le altre divinità del pantheon egiziano, le quali pian piano scomparvero dai monumenti ufficiali. Il fatto che Akhenaten non si preoccupi di ignorare le altre divinità conferma la novità delle dottrine da lui proposte. In maniera del tutto insolita rispetto alla tradizione, già nei templi dell’Aten a Tebe e poi ad Akhetaten, il sovrano e Nefertiti appaiano intenti ad adorare, in maniera esclusiva, il dio sole e a praticare rituali in suo onore sotto i suoi raggi. Nessun altro dio o dea è ammesso alla presenza della coppia regale. In sintesi, non c’è più bisogno di appagare gli altri dei con la costruzione di templi in loro onore e l’organizzazione di offerte per il loro sostentamento, in quanto il dio sole è l’unico fondatore e garante del Giusto, dell’Armonia che governa sia le forze della natura sia le regole della società civile.

A questo proposito, il sovrano non rinunciò mai all’epiteto «colui che vive di Maat», da intendere come «colui che vive di verità» o «[sulla] verità». Il re è anche il «signore di Maat», «che gioisce in Maat»; secondo le parole di Ay e May, Akhenaten è colui che offre Maat al bel volto dell’Aten, mentre per Tutu egli è equiparabile a Ra «che generò Maat». Akhetaten stessa è il «luogo di Maat». Si tratta di un’altra peculiarità di Akhenaten. Infatti, durante il Nuovo Regno, l’epiteto «colui che vive di Maat» fu utilizzato soprattutto per le divinità solari, come Ra-Horakhty o Atum, piuttosto che dai sovrani. Benché sia stato sostenuto che la costante associazione di Akhenaten con la Maat mirasse a sottolineare le superiori qualità morali del re e della sua dottrina, nei testi atenisti potrebbe essere intesa come l’elemento fondante del mondo creato, il «Giusto», la «Verità» e l’«Armonia» come condizione necessaria al benessere di tutto ciò che esiste e di cui il potere del sovrano è diretta emanazione. La Maat è anche un principio che unisce il re ai suoi sudditi. Se la Maat, fondata dal dio sole al momento della creazione, deve essere praticata, preservata e garantita dal sovrano, per i suoi funzionari è una virtù, uno strumento d’interazione sociale che regola i loro comportamenti come membri di una comunità.

Nell’Egitto antico, la dinastia aveva il controllo di buona parte delle risorse, le quali venivano redistribuite ai funzionari a seconda del loro livello di partecipazione al funzionamento dello stato. All’epoca di Akhenaten, la monopolizzazione delle risorse da parte della corona aumentò drasticamente (Kemp 1991, p. 289; Laboury 2010, pp. 272-281). I testi presenti nelle tombe di questi dignitari rendono evidente come il rapporto tra sovrano e funzionario si basasse su un rapporto di dipendenza. Akhenaten instaurò un sistema il cui centro era occupato dall’Aten e dalla coppia regale, che controllava del tutto la sfera divina. Secondo i testi dell’epoca, a tutti gli esseri viventi – animali e uomini, fossero essi Egiziani o stranieri – era dato di contemplare la manifestazione dell’Aten nel cielo; solo per i più fortunati, però, l’esperienza visiva includeva la possibilità di ammirare in prima persona il sovrano, diventando una via per la realizzazione del proprio essere. L’affermazione di essere l’unico a conoscere la vera essenza dell’Aten permise ad Akhenaten di presentarsi come il vero e solo intermediario tra l’Aten, unico dio adorato, e gli uomini. Per i «favoriti», ossia coloro che sono al seguito del re e ai quali è stato concesso il privilegio di far allestire una tomba nelle colline di Akhetaten, non è prevista nessuna forma di adorazione se non quella dell’Aten e del re stesso; ma la fedeltà nei confronti del sovrano e la fede nell’Aten convergono, sono l’uno un aspetto dell’altro. Ad esempio, Ay, Tutu e May definiscono Akhenaten il «mio dio». I funzionari di Amarna affermano di vivere in adorazione del re e di saziarsi vedendolo e seguendolo; allo stesso tempo essi adorano l’Aten, gli rivolgono preghiere non tanto a loro beneficio, ma a favore del re, affinché il dio contribuisca al benessere di suo «figlio» Akhenaten, il quale contribuirà a sua volta al benessere di loro stessi, in un processo circolare fatto di preghiere, offerte e ricompense di cui tutti – dio, re e funzionari – traggono vantaggio. L’adorazione di Aten appare dunque come un utile strumento al proprio servizio, che permette il successo e l’affermazione personale.

A questo proposito, un elemento costante nei testi è l’immagine del re come un maestro che impartisce il suo insegnamento. Colui che entra in comunicazione con il maestro e con le sue parole non solo può sentire la presenza del divino, ma migliorare la propria posizione nella società. I membri dell’élite di Akhetaten, attraverso i testi delle loro tombe, si presentano come uomini intenti ad adorare il dio e il re, a gioire della visione dell’uno e dell’altro, ma anche individui capaci di godere dei beni materiali, estremamente consapevoli dei benefici derivati dalla loro posizione. Ad esempio, Ay dichiara: «il mio signore mi ha istruito, affinché io potessi mettere in pratica il suo insegnamento… Com’è fortunato colui che esalta il tuo insegnamento di vita!»; May, invece, afferma: «il mio signore mi ha promosso affinché potessi eseguire i suoi insegnamenti [che] io ho udito dalla sua voce senza interruzione». Ma in che cosa consiste la dottrina o l’insegnamento «di vita» impartito da Akhenaten? In uno dei testi della tomba di Tutu, Akhenaten in persona si rivolge al suo fidato dignitario: «tu sei il mio grande servo, che ascolta il mio insegnamento», mentre Tutu risponde invitando il sovrano, di fatto l’unico vero detentore della completa conoscenza della divinità, a diffondere il suo sapere: «O Uaenra, immagine di Ra, che innalza Ra e soddisfa Aten, che fa sì che la terra conosca colui che l’ha creata». Secondo le parole di Tutu, parrebbe dunque trattarsi della trasmissione di una conoscenza superiore relativa alla natura del dio sole, da cui tutto ha origine, e custodita dal re, immagine e figlio della divinità.

Tuttavia, tale insegnamento sulla natura della divinità s’intreccia con questioni che appaiono meno “alte”, legate alla gestione del potere. Lo svolgimento quotidiano, da parte dei funzionari, degli ordini impartiti dal re va considerato alla luce del buon funzionamento del regno, da cui dipende il benessere del re stesso e del dio Aten. Nella tomba di Meryra (I), le parole di Akhenaten sembrano infatti assumere un significato diverso; ciò che interessa, più che arricchire la comprensione degli uomini sulla natura della divinità, è la capacità del funzionario di fare ciò che egli chiede: «tu sei il mio servo che ascolta il vero insegnamento», ma subito dopo:

«Per quanto concerne ogni missione che tu hai svolto, il mio cuore è contento di ciò». Ciò che garantisce il successo nella vita è seguire l’insegnamento del re, ossia adorare Aten – tentando di conoscerlo – ma anche contribuire all’armonia del paese attraverso le proprie mansioni. L’adorazione dell’Aten va di pari passo con il benessere materiale. L’efficienza è apprezzata e prontamente ricompensata. Sempre nella tomba di Meryra (I), Akhenaten invita il soprintendente della casa dell’oro e dell’argento – una sorta di ministro delle finanze dell’epoca – a premiare Meryra con le seguenti parole: «Poni l’oro al suo collo e dietro di lui e oro ai suoi piedi, poiché egli ha ascoltato l’insegnamento del faraone!». Il re è il centro assoluto: lo si adora, si prega Aten a suo beneficio e si devono eseguire i suoi insegnamenti e i suoi ordini. Di conseguenza, Akhenaten è la fonte da cui dipende la carriera del singolo. Egli è equiparato al Nilo, da cui scaturisce la vita dell’Egitto, oppure, come nelle tombe di Panhesy e Ramose, alla luce, fonte di vita. Akhenaten assicura infatti la continuità della vita sulla terra, facendo «venire all’esistenza le generazioni». E soprattutto, il re è il Fato, colui che determina il destino del singolo individuo. Egli è il «Fato che dona la vita» (Meryra I e Panehsy), e colui che «crea un destino felice per il suo favorito» (Ay). A questo proposito, alcuni funzionari, come May e Panehsy, non nascondono affatto le loro umili origini, anzi sono fieri di aver raggiunto una posizione altissima all’interno della società grazie proprio al benvolere del re e, non di meno, alle loro capacità. May dice: «io ero un uomo umile sia da parte di padre sia di madre, [ma] il sovrano mi ha plasmato», mentre per Panhesy il re è colui che «mi creò tra l’umanità… che ha fatto sì che diventassi potente quando ero povero». La ricchezza è un riscatto sociale («ammirate le grandi cose che furono fatte per me», come dice Tutu), che coinvolge anche amici e parenti, come ricorda lo stesso Panhesy: «Tutti i miei parenti [hanno] proprietà, ora che sono divenuto un favorito di colui che le crea». Di fatto, seguendo le parole di Ramose, «non vi è povertà» (spirituale e materiale) «per chi pone il re nel proprio cuore», ossia per chi decide di adorarlo e ascoltare i suoi insegnamenti. In sintesi, come ben riassume Ahmes, «come è felice colui che segue il sovrano; egli è in festa ogni giorno!».

Jan Assmann ha sottolineato come l’atenismo possa essere ritenuto una radicalizzazione della teologia solare, sviluppatasi soprattutto a partire dall’inizio della XVIII dinastia. A questo proposito, basterebbe citare l’inno ad Amon-Ra del papiro Boulaq 17 (Zecchi 2004, pp. 81-89) del Museo del Cairo, datato non più tardi del regno di Amenhotep II, nel quale troviamo già diversi temi espressi nei testi amarniani: l’unicità del dio creatore, l’aspetto universale della sua attività creatrice – che coinvolge tutto ciò che esiste e tutti gli uomini, Egiziani e stranieri – e un’ampia visione naturale. Alcuni fondamenti dell’atenismo appaiono dunque tutt’altro che originali. Tuttavia, il linguaggio utilizzato nei testi precedenti, come l’inno del papiro Boulaq 17, si avvale di una serie di associa- zioni sincretistiche, nelle quali il dio creatore è paragonato a diverse divinità del pantheon egiziano, oltre che di immagini ricavate da piani mitologici differenti. Al contrario, l’atenismo è privo di riferimenti mitologici tradizionali e il suo dio, l’Aten, non è mai equiparato ad altre divinità.

Dalla XVIII dinastia si assiste inoltre allo sviluppo di una religiosità individuale che prevedeva che ogni singolo individuo fosse in grado di entrare in contatto in prima persona con la divinità scelta. L’individuo poteva, secondo un’espressione tipica del periodo, «porre la divinità nel proprio cuore», ossia comunicare con essa, farla propria (Assmann 1992). Con l’atenismo – scomparsi gli dei e rimanendo il solo Aten, lontano e distante – all’uomo di Akhetaten non resta altro che porre nel proprio cuore il re e il suo insegnamento, la sua dottrina.

Grazie alla sua unicità, Akhenaten ha affascinato molti commentatori moderni. La figura di questo antico sovrano, vissuto oltre 3300 anni fa, ha varcato gli stretti confini dell’egittologia per trovare spazio, grazie alle sue idee religiose, all’interno della tradizione occidentale. Ma come interpretare e definire l’esperienza di Akhetaten? Nel corso di oltre 150 anni di studi egittologici e di altre discipline delle scienze umane, ad Akhenaten sono stati attribuiti diversi aggettivi – «mistico», «rivoluzionario», «falso profeta», «eretico», «razionalista radicale» – ma, soprattutto, la sua figura è legata a un dibattito sulla nascita del monoteismo. In sintesi, per molti studiosi sarebbe errato ritenere l’atenismo un precursore del monoteismo, in quanto le sue caratteristiche sono troppo distanti dalle grandi religioni, ebraica, cristiana e musulmana; altri invece hanno sostenuto che Akhenaten fosse un convinto monoteista, la cui dottrina avrebbe in un qualche modo influenzato la nascita del “mono-jahvismo” ebraico.

Sebbene i primi egittologi abbiano compreso subito l’originalità della religione pro- posta da Akhenaten, il primo a parlare di monoteismo in relazione all’Aten e Akhenaten fu probabilmente l’egittologo americano Henry Breasted (Breasted 1894), per il quale il sovrano d’Egitto fu il «primo profeta della storia» (Breasted 1921). Breasted attirò l’attenzione su possibili similitudini tra il “grande inno” all’Aten della tomba di Ay e il Salmo 104 della Bibbia (Breasted 1905 e 1921; Day 2013). Visioni simili s’incontrano nelle opere del britannico Arthur Weigall, per il quale il dio proposto da Akhenaten, il primo a comprendere il «significato della divinità», è il «vero Dio» (Weigall 1910), o dell’egittologo tedesco Adolf Erman (Erman 1934). Quando nel 1939 Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, pubblicò il suo L’uomo Mosè e la religione monoteista – un tentativo di leggere in chiave critica e allegorica le origini dell’ebraismo per comprendere l’antisemitismo della sua epoca – le idee di Breasted trovarono nuova forma. Freud prese in prestito da Breasted l’idea che Mosè fosse un nome di origine egiziana col significato di «bambino». Mosè sarebbe stato infatti un egiziano, un parente di Akhenaten. Alla morte del faraone, egli avrebbe tentato di fondare un proprio regno in cui l’Aten potesse continuare a essere adorato come dio unico. Secondo la sua ricostruzione, da lui stesso ritenuta fragile e fantasiosa, Mosè avrebbe dunque insegnato il monoteismo di Akhenaten agli Ebrei in Egitto, per poi guidarli durante l’esodo dal paese. Tuttavia, non sopportandone il rigore religioso, gli Ebrei assassinarono Mosè e abbandonarono e dimenticarono la religione che era stata loro insegnata. In seguito, il culto del dio di Mosè si sarebbe fuso con quello di Jahvè, in origine un dio dei vulcani, e Mosè l’egiziano sarebbe stato sostituito da un nuovo profeta, un secondo Mosè, la cui memoria si confuse con quella del primo. Dietro la figura di Jahvè vi sarebbe l’ombra dell’Aten egiziano. Questa trama intessuta da Freud lasciò del tutto indifferenti gli egittologi sino al 1997, quando Jan Assmann pubblicò il suo Mosè l’egizio (Assmann 2000). In questo importante saggio, Assmann non sostiene affatto l’esistenza di un rapporto, sul piano storico, tra il monoteismo di Akhenaten e la nascita del monoteismo ebraico. Mosè, a differenza di Akhenaten, è una figura che appartiene alla memoria e alla tradizione. Ed è proprio sul piano della memoria e della tradizione che sarebbe avvenuto l’incontro tra il faraone egiziano e Mosè.

Per Assmann, gli Egiziani non poterono del tutto dimenticare l’esperienza traumatica del regno di Akhenaten e della sua religione incentrata sull’Aten. Una reminiscenza delle sue idee sopravvisse e continuò a circolare, divenendo parte della tradizione. Assmann individua nella nascita del monoteismo un cambiamento radicale, una «rivoluzione», un «trauma», da cui deriva la «distinzione mosaica», ossia la distinzione tra «vero» e «falso» dio. Tale distinzione sarebbe stata introdotta per la prima volta da Akhenaten, il quale avrebbe appunto portato a termine, ma senza successo, la stessa rivoluzione che la tradizione biblica attribuisce a Mosè. L’atenismo è inteso da Assmann come la prima “contro-religione” monoteista della storia, ma che venne rimossa e dimenticata per essere poi sostituita da una nuova esperienza religiosa, quella del monoteismo delle cosiddette grandi religioni del Libro. L’atteggiamento degli egittologi rimase, e rimane tuttora, diviso su come interpretare le dottrine di Akhenaten. Se da un lato alcuni studiosi – come Hornung (Hornung 1998), per il quale con Akhenaten l’enoteismo si è trasformato finalmente in monoteismo, Grandet (Grandet 1995) e Hoffmeier (Hoffmeier 2015) – non esitano a ritenere l’atenismo la prima forma di monoteismo, altri sono assai più cauti, se non contrari (si veda la sintesi di Volokhine 2009). L’opinione prevalente ritiene che, nel caso di Akhenaten, si potrebbe parlare di enoteismo o, al massimo, di una forma di monolatria, ossia l’adorazione di un unico dio, riconosciuto come supremo, creatore della realtà, ma ad essa trascendente, senza implicare l’esplicita affermazione della sua unicità o la negazione di altri dei. Non bisogna dimenticare che il termine monoteismo è una “invenzione” risalente al XVII secolo della nostra era e utilizzato, a partire almeno dal XIX secolo, soprattutto nella speculazione filosofica e teologica associata al pensiero religioso ebraico-cristiano-islamico. Il significato stesso del termine è complesso e difficilmente esprimibile attraverso una rigorosa definizione, in quanto non coinvolge solo l’idea dell’unicità divina, ma anche aspetti relativi alle sue qualità.

La netta distinzione tra politeismo e monoteismo avrebbe potuto avere un qualche significato per Akhenaten? Stando ai testi della religione ufficiale e a quelli presenti nelle tombe ad Amarna, è indubbio che Aten riceva un’adorazione esclusiva. Per i membri della famiglia reale e per i dignitari sepolti nelle tombe di Akhetaten non c’è spazio per il culto di altri dei. Ma Aten è un dio unico solo in relazione all’eccellenza delle sue qualità o anche per quanto riguarda l’esistenza? Gli altri dei sono estromessi perché non più esistenti o perché ritenuti inefficaci, pallide figure di fronte all’Aten?

Abbiamo già visto come, in alcune talatat dell’inizio del regno di Amenhotep IV/ Akhenaten da Karnak, altre divinità siano raffigurate e la parola netjeru, «dei», sia ancora utilizzata. Tuttavia, a un certo punto la parola netjeru scomparve dai testi dell’epoca. Nelle stele di confine contenenti la prima proclamazione si legge, in relazione ad Akhetaten: «fu il faraone – vita, forza, salute – che la trovò, quando non apparteneva a un dio e non apparteneva neppure a una dea; quando non apparteneva a un sovrano e non apparteneva neppure a una sovrana; quando non apparteneva a nessuna persona…». Ma anche questa menzione non è molto significativa nel dibattito sul monoteismo di Amarna, in quanto non è necessariamente un riconoscimento dell’esistenza di altri dei oltre all’Aten; attraverso questo passo si voleva forse solo sottolineare che Aten desiderava che la sua città fosse costruita in un territorio non contaminato dalla presenza di divinità appartenenti a un passato che si voleva cancellare.

Orly Goldwasser (Goldwasser 2006) ha attirato l’attenzione sull’importanza delle forme grafiche del nome Aten, in particolare sulla presenza dei cosiddetti classificatori – o determinativi – ossia quei segni geroglifici che, secondo il principio di scrittura egiziana, possono essere collocati alla fine delle parole, non per essere letti, ma per indicare la classe a cui quel termine appartiene. Già diversi anni fa, Louis Žabkar (Žabkar 1954) aveva notato che nei testi amarniani il nome geroglifico di Aten non termina con classificatori che esprimono il concetto di divinità, come il geroglifico dell’uomo seduto con barba, del falco su stendardo, o della bandiera, utilizzato anche come ideogramma per scrivere la parola netjer, «dio», ma con il classificatore/geroglifico rappresentante il sole. Orly Goldwasser ritiene che tale scelta non possa essere casuale ma sia carica di significato per la nuova teologia solare, in quanto costituisce un ulteriore allontanamento dalla tradizione religiosa. La studiosa ha sostenuto che la dottrina di Akhenaten non aggiunse deliberatamente nessun classificatore che potesse evocare la parola «dio» perché di fatto l’atenismo aveva cancellato la categoria stessa degli dei. È altrettanto significativo che durante i regni di Amenhotep III, padre di Akhenaten, e di Horemheb, ultimo re della XVIII dinastia, il nome di Aten sia scritto, anche se solo di rado, col classificatore dell’uomo seduto con barba. Akhenaten accetta come classificatore quello del sole in quanto l’astro è la manifestazione visibile della divinità in cielo; egli rifiuta invece qualunque altro classificatore divino poiché rifiuta di presentare l’Aten come un qualunque altro dio. Far terminare il nome dell’Aten con uno di questi geroglifici avrebbe implicato l’inclusione dell’Aten in una “classe” di dei, ossia che l’Aten è solo un esempio di divinità, come lo erano Amon, Hathor, Sobek, Bastet, ecc. Non c’è più nessuna categoria di dei; Aten pertanto non può essere un mero esempio di un dio in quanto è l’unico dio.

La questione del presunto monoteismo di Akhenaten è destinata, con ogni probabilità, a rimanere aperta. È significativo, tuttavia, che i testi e l’iconografia relativi all’Aten mostrino come, nel corso degli anni di regno di Amenhotep IV/Akhenaten, vi sia stato un costante ripensamento del significato della divinità.

In un anno non precisato del regno – secondo alcuni nell’anno 9, secondo altri non prima dell’anno 12 o 13 (Gabolde 1998, pp. 117-118) – Akhenaten prese l’impor- tante decisione di cambiare il nome didascalico dell’Aten scritto all’interno dei due cartigli. Ci si potrebbe chiedere se, dal punto di vista teologico, non fosse un’operazione rischiosa, un’ammissione che il nome didascalico «Viva Ra-Horakhty che si rallegra all’orizzonte nel suo nome di luce che è in Aten», utilizzato ormai nei testi decine e decine di volte, fosse di fatto non corretto. Di certo esso non corrispondeva più a una descrizione dei caratteri fondamentali dell’Aten. Il fatto stesso di aver apportato una modifica al primo nome didascalico ci dice quanto sia stato ritenuto urgente e necessario, a un certo punto del regno, cercare una nuova definizione della natura dell’Aten.

In una fase che possiamo definire intermedia, nota grazie a pochi documenti, il nome del dio appare ankh ra-her-akhty hay em akhet (ʿnḫ rʿ-ḥr-ȝḫty ḥʿy m ȝḫt, fine primo cartiglio) em ren-ef em ra it ii em aten (m rn.f m rʿ jt jj m jtn, fine secondo cartiglio), tradotto di solito come «Viva Ra-Horakthy che gioisce all’orizzonte nel suo nome di Ra, il padre che viene come Aten». Secondo le interpretazioni correnti, in questa variante, il primo cartiglio utilizzerebbe, per scrivere il nome divino «Horo», due segni fonetici + r, “H(o)r(o)”, al posto del più usuale segno geroglifico del falco presente nella prima variante. Si conserverebbe così il nome del dio falco, tralasciando però il segno geroglifico che richiama la sua immagine animale.

Fig. 9. Prima e ultima versione del nome didascalico dell’Aten.

È stato al contrario suggerito che il primo cartiglio dovrebbe essere letto come ankh ra her(y) akhty hay em akhet (ʿnḫ rʿ ḥry ȝḫty ḥʿy m ȝḫt) da intendere her(y) come un aggettivo derivato dalla preposizione her, «sopra», e da tradurre «colui che è sopra»; in tal caso il nome sarebbe «Viva Ra che è sopra ai due orizzonti e che gioisce all’orizzonte»; se questa interpretazione fosse corretta, già in questa fase intermedia il nome di Horo sarebbe stato dunque estromesso (Wegner 2017, pp. 35-36). In seguito, apparve una nuova e definitiva variante: ankh ra heka akhet hay em akhet (ʿnḫ rʿ ḥqȝ ȝḫt ḥʿy m ȝḫt, fine primo cartiglio) em ren-ef em ra it ii m aten (m rn.f m rʿ jt jj m ijtn, fine secondo cartiglio), «Viva Ra il sovrano dell’orizzonte che gioisce all’orizzonte nel suo nome di Ra, il padre che viene come Aten» (Fig. 9). La struttura del nome è pressoché identica a quello precedente, ma senza nessuna ambiguità grafica. Immutato è l’inizio, ankh, ossia l’idea della «vita» associata al dio; rimane anche il tema fondamentale della gioia, che accresce all’orizzonte nel momento in cui il dio si manifesta al mondo da lui stesso creato; nel secondo cartiglio rimane invariato sia l’inizio («nel suo nome di») sia la fine, che coincide con il termine «Aten». Più significativo è ciò che è stato estromesso, in primo luogo il nome Horakhty, «Horo-dei-due-orizzonti», il quale, benché sia un appellativo per indicare un aspetto del dio sole, era pur sempre formato con il nome di Horo, l’antico dio falco; così pure estromesso fu il sostantivo «luce», shu, in quanto poteva essere inteso anche come il nome del dio dell’aria e della luce Shu, rappresentato perlopiù a forma umana con una piuma sulla testa. Questo nuovo nome mirava a togliere qualunque possibile ambiguità interpretativa e a esprimere una concezione più pura della divinità, davvero non contaminata da possibili e fastidiose allusioni ad altre divinità del pantheon egiziano.

Rimane aperto il quesito se questo ulteriore mutamento di nome sia solo un’esplicita affermazione dell’inadeguatezza degli altri dei – nessuno escluso – a essere accostati al dio sole o una spinta verso un sempre più convinto monoteismo.

Questa ricerca verso una nuova definizione della natura dell’Aten è confermata dall’introduzione di nuovi modi di sottolineare, secondo le parole di Hornung (1998, p. 90), la sua «pretesa di unicità». Nel “grande inno” all’Aten della tomba di Ay, ad esempio, ci si rivolge alla divinità come «dio unico senza un altro accanto a lui» o «eccetto lui» (netjer ua nen ky her khu-ef ), di cui si ha un parallelo nel summenzionato inno ad Amon-Ra del papiro Boulaq 17 dell’epoca di Amenhotep II, in cui Amon-Ra è chiamato «esclusivamente unico tra gli dei» (ua her khu-ef em- em netjeru). In un altro testo della sua tomba, Ay si rivolge all’Aten dichiarando «non vi è un altro che sia grande eccetto te» (nen ky aa upu her-ef ), un’affermazione che suggerirebbe che l’unicità dell’Aten fosse limitata alla sua “grandezza”. È plausibile che non sia una coincidenza il fatto che nella tomba di Ahmes, in cui è già adottata la seconda versione del nome didascalico, dell’Aten si dica senza nessuna ambiguità che «non vi è un altro eccetto lui» (nen ky upu her-ef).

Forse proprio nello stesso periodo in cui il nome didascalico di Aten fu modificato, nei testi inziarono a essere bandite alcune forme ortografiche di alcune parole. Il termine Maat – il Giusto o l’Armonia che governa e tiene insieme il mondo creato – non fu più scritto attraverso il segno geroglifico della dea che personifica questo principio, bensì foneticamente. Lo stesso vale per la parola «madre», mut, anch’essa scritta foneticamente, senza utilizzare il geroglifico dell’avvoltoio, associato alla dea Mut, sposa di Amon.

Un’ulteriore caratteristica del periodo di Akhenaten è la persecuzione operata dal sovrano contro Amon. Questa violenza iconoclasta contro il dio tebano, il «re degli dei», come spesso veniva definito, rappresenta un fenomeno poco conosciuto, la cui reale portata e il cui significato ci sfuggono. Di certo, testimonianze da nord a sud del paese dimostrano che il nome e le immagini, e talvolta anche gli epiteti, di Amon furono cancellati dai monumenti. Non di rado, il nome del dio fu eraso persino dai cartigli contenenti nomi teofori amoniani di alcuni re, come Amenemhat e Amenhotep.

Questo programma di proscrizione fu con ogni probabilità organizzato dallo stesso Akhenaten e confermerebbe quanto la sua autorità fosse salda, dal Delta all’estremo sud. Ma chi furono coloro che entrarono nei templi per cancellare il nome di Amon? Persone che vivevano in quegli stessi luoghi, che agivano tutelate dalla protezione del re e spinte da una fede sincera verso l’Aten? O si trattava di squadre inviate dal sovrano che si spostavano lungo il paese sotto il suo ordine? Anche le reazioni, ammesso che ce ne siano state, dei sacerdoti un tempo responsabili dei templi coinvolti non ci sono note. Furono resi parte dell’iniziativa, o si limitarono a subirla? Non sappiamo neppure se questo fenomeno abbia attraversato buona parte del regno di Akhenaten, oppure sia stato circoscritto a un periodo preciso, della durata di pochissimi anni. In tal caso, quando? Ebbe inizio nel momento in cui il re cambiò il suo nome e annunciò la fondazione di Akhetaten? Oppure fu limitato alla fine del regno, come segno di un inasprimento dell’atteggiamento di Akhenaten verso Tebe? Che questa città sia stata la vittima predestinata è confermato dal fatto che non si cancellò solo il nome di Amon, ma anche quello della dea Mut, sua compagna, e del loro figlio Khonsu2Vedi Glossario – KHONSU: Dio associato alla luna, figlio di Amon e Mut. Era raffigurato come un fanciullo mummiforme con la luna crescente e il disco solare sul capo e con un ricciolo laterale, simbolo dell’infanzia., mentre furono risparmiati quelli delle altre divinità del pantheon egiziano; persino il nome del tempio di Karnak, Ipet-sut – sede per eccellenza della divinità – fu non di rado eraso. Anche le modalità della proscrizione non sono chiare, ammesso che ci sia stato un modo di agire comune in tutto il paese. Ad esempio, nel tempio funerario di Amenhotep III a Kom el-Hettan, la figura di Amon è sostituita da quella di altre divinità, mentre altrove è solo erasa.

E come interpretare l’ordine di cancellare anche la parola netjeru, «dei», da alcune iscrizioni templari e persino da tombe tebane di privati? Ciò avvenne contemporaneamente alla proscrizione amoniana o ne rappresenta solo una seconda fase, ancor più severa, in cui si volle sopprimere l’idea stessa della pluralità degli dei? Qual è dunque il significato di queste azioni violente verso Amon? Quale messaggio la corte voleva trasmettere al paese che vedeva abolire il nome e l’immagine del «re degli dei» dalle pareti dei templi? Siamo di fronte a un fenomeno che deve essere letto a favore di un monotesimo atenista, come alcuni hanno suggerito? Si potrebbe supporre che si trattò di una mera vendetta contro Tebe e il suo clero, il quale, come parrebbe lasciare intendere Akhenaten stesso nelle stele di confine, avrebbe forse osteggiato le scelte religiose del re; oppure di una fredda scelta politica, mirante a ricordare al paese che il grande clero tebano e il suo dio non erano più nulla e che il potere era nelle mani del faraone. Poiché eliminare i nomi e le immagini di tutti gli dei sarebbe stata un’impresa titanica, se non impossibile, si potrebbe ipotizzare che la proscrizione di Amon e degli altri dei tebani, così come la cancellazione del termine plurale netjeru, costituisse un’affermazione teologica: annientare il «re degli dei» Amon implicava annientarli tutti.